L’ultimo libro di Roberto Giardina

S’intitola Lebst du bei den Bösen? Deutschland – meiner Enkelin erklärt (Tu vivi tra i cattivi? La Germania spiegata alla mia nipotina) l’ultimo libro di Roberto Giardina, pubblicato per la casa editrice Launenweber di Colonia. Il titolo necessita di una spiegazione che chiarisce la circostanza in cui il volume è stato concepito e scritto. Un nonno che vive a Berlino e che ha trascorso gli ultimi decenni della sua vita in Germania, riceve una telefonata dalla nipotina di Roma. La piccola Francesca, otto anni, è turbata. A scuola alla vigilia del 25 aprile la maestra le ha spiegato che quella data segna la ricorrenza della Liberazione. «Liberazione da cosa?», aveva chiesto la curiosa ragazzina alla sua maestra. «Dai nazisti, dai cattivi tedeschi che avevano occupato militarmente gran parte della penisola». A quel punto Francesca si preoccupa e subito chiama il nonno e lo interroga: «Nonno, ma tu vivi in mezzo ai cattivi?».

Parte da qui la narrazione di Giardina. L’aneddoto iniziale rivela un pervicace stereotipo che da molto tempo si annida nell’immaginario collettivo di noi italiani: il tedesco è per definizione il “cattivo”, il violento, l’autoritario, quello che vuole sempre aver ragione e imporre il suo punto di vista. È un luogo comune che affonda le sue radici nell’esperienza della seconda guerra mondiale e nelle ferite mai cicatrizzate dell’occupazione nazista. Decine di romanzi e di film hanno trasmesso l’immagine di soldati tedeschi feroci e spietati: un’idea che si è cristallizzata e che ciclicamente si ripropone condizionando anche i rapporti politici tra Italia e Germania. Quante volte si è vista anche in tempi recentissimi la stampa italica ricorrere al paradigma del Terzo Reich per stigmatizzare decisioni della Bundesbank o della cancelliera Merkel? Quante volte è capitato di sentire lamentele verso i tedeschi che «sono sempre gli stessi», che con prepotente arroganza impongono sacrifici agli altri godendosi il proprio benessere, che non accettano compromessi, non concedono nessun margine di flessibilità e così via?

Giardina è un siciliano di Palermo, affezionatissimo alle sue origini e alla sua terra. Fin dai primi anni Ottanta vive in Germania, prima ad Amburgo, poi a Bonn, quindi a Berlino, lavorando come corrispondente di varie testate. Nei suoi articoli, come anche nei sui saggi e romanzi ha sempre combattuto una sorta di guerra personale contro la banalizzazione dei luoghi comuni nel rapporto tra italiani e tedeschi. In particolare ha sempre cercato di ribaltare la percezione diffusa del tedesco “cattivo”, che si può tutt’al più “stimare”, ma certamente non “amare”, come recita un noto modo di dire. Per Giardina è invece possibile amarli i tedeschi, così come stava scritto nel titolo di uno dei suoi libri più conosciuti e apprezzati soprattutto tra gli italiani che vivono in Germania. Mi riferisco a quella Guida per amare i tedeschi (Rusconi 1994) che pochi anni dopo la caduta del Muro segnò uno spartiacque nel modo di percepire l’immagine della realtà tedesca in Italia. In una serie di bozzetti ricchi di aneddoti per lo più autobiografici, di riferimenti alla cronaca e alla vita reale, Giardina in quell’opera dimostrava come i tedeschi degli anni Novanta non fossero più paragonabili a quelli delle reminiscenze belliche. Si erano trasformati in un popolo tranquillo, gioioso, amante delle buone maniere e della buona tavola, perfino creativo e generoso. In una parola: si erano “italianizzati”.

A quasi tre decenni di distanza da Guida per amare i tedeschi Giardina ritorna sulla questione con uno sguardo più maturo e consapevole, ma per nulla distaccato. Per lui il rapporto tra italiani e tedeschi, lo si capisce fin dalle prime righe, è materia vivente che scotta e qualche volta brucia. Gli stereotipi sul tedesco freddo e brutale contro l’italiano buono e generoso continuano a circolare e si trasmettono alle nuove generazioni in una catena che parrebbe senza interruzione. La novità rispetto al libro precedente, una novità che conferisce al testo un grado di leggibilità ancora maggiore, è data dalla scelta di ambientare la riflessione all’interno di una cornice narrativa leggera e coinvolgente: il dialogo ininterrotto tra il nonno e la nipotina. La bambina Francesca chiacchiera al telefono col nonno Roberto in Prussia, spesso gli fa visita; insieme passeggiano per le strade di Charlottenburg e degli altri quartieri, visitano musei e luoghi storici. Il nonno spiega i monumenti, chiarisce i comportamenti della gente che incontrano, racconta delle sue esperienze di vita in Germania. Il tutto senza mai ergersi a maestro saccente, ma con l’approccio giusto, verrebbe da dire socratico, di chi può insegnare ma anche imparare. Tanto più che l’interlocutrice mostra un’intelligenza e una curiosità insaziabili. Francesca cresce nel corso dei dialoghi, diventa un’adolescente di 17 anni, ormai una donna, e un po’ alla volta capisce quanto le cose siano ben più complicate di quanto immaginava all’inizio. I tedeschi non sono tutti cattivi, così come gli italiani non sono tutti buoni.

Gli argomenti trattati sono cruciali: il nazismo, la seconda Guerra Mondiale, la divisione della Germania e la caduta del Muro, la politica della Merkel, l’accoglienza dei profughi. Giardina rievoca le proprie esperienze professionali: il viaggio in Polonia al seguito di Brandt quando il cancelliere s’inginocchiò davanti a un monumento che ricordava la rivolta del ghetto di Varsavia, gli incontri con Speer e Dönitz, stretti collaboratori di Hitler, quello con Günter Grass. Il vissuto quotidiano dimostra come i tedeschi di oggi siano dotati di un forte senso sociale, capaci di solidarietà, devoti al rispetto delle regole. Le virtù e i difetti tradizionali si sono ridimensionati e non sempre è facile distinguer ciò che è “typisch deutsch” come un tempo. Agli occhi di Francesca la terra di Goethe e della Merkel si palesa come un territorio diverso da quello di casa, ma niente affatto ostile, anzi per tanti aspetti migliore e attraente. «Tutti parlano male della Germania, ma molti giovani italiani vi si trasferiscono» commenta nonno Roberto.

Il gioco d’incastro di rispecchiamento dei cliché è quanto mai complicato e il libro si diverte a rimescolare le carte fino a confondere il lettore. Ma alla fine di questo accorto spiazzamento risulta quanto mai vera e valida la lezione che Francesca fa sua: «Qui è l’unico posto dove mi posso sentire straniera, e anche a casa mia».

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