Fratel Biagio – Il suo carisma e la sua opera a Palermo nella testimonianza di chi lo ha conosciuto
Il 12 gennaio scorso è scomparso prematuramente Biagio Conte, fratel Biagio per tutti. Una fiaccolata notturna di migliaia di persone ha accompagnato il suo feretro. La sua vita, la sua opera, la Missione Speranza e Carità, lasciano un esempio luminoso di sequela del vangelo. Come ha fatto? Com’era il rapporto con la sua città? Avviciniamoci a lui attraverso la testimonianza di Katia Mammana. Lei lavora all’arcivescovado di Palermo.
Come ha conosciuto fratel Biagio e che cosa Le ha trasmesso?
A quel tempo, era il 2006, collaboravo per la radio diocesana di Palermo Radio Spazio Noi e ho voluto fare un servizio su di lui. Si trovava all’interno del convento di Santa Caterina che già allora era la missione di accoglienza femminile. Il piano terra gli era stato già dato per accogliere un centinaio fra donne e bambini che erano per strada. Ma gli spazi che aveva a disposizione erano troppo pochi per tutta quella gente. Il convento era in pessime condizioni da quando le suore se ne erano andate. Fratel Biagio si trovava lì al secondo piano insieme a un fratello che lo aiutava, dentro queste stanze con finestre chiuse come si poteva. Era inverno e faceva un freddo incredibile. A quel tempo aveva un problema alla schiena, quindi non camminava bene, ma era lì per richiamare l’attenzione sul fatto che aveva bisogno degli altri piani del convento perché l’accoglienza alle donne e ai bambini lo richiedevano. Era un tempo per lui di grande prova perché aveva un bisogno e non sentiva risposte immediate, e allora era lì a protestare, era lì a scrivere, lì a chiamare questa o quella autorità politica e anche l’arcivescovo perché si desse alla missione femminile più spazio. Mi colpì la sua determinazione per le condizioni difficili della sua salute e per il freddo. Mi sono trovata davanti una persona, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo ancora incontrato ed è scattato subito un rapporto bellissimo. Quando lo incontravo era sempre una festa, anche perché lui era grato che la radio parlasse per dare voce agli ultimi, per lui era una benedizione. In quel momento sembravo io la benefattrice sua, ma ovviamente non era così.
Determinazione, perseveranza ma anche il digiuno come arma.
In fondo i santi sono strani, perché certe volte portano avanti i disegni che Dio affida loro in una maniera che spesso ci sfugge. Per lui il digiuno era un’arma di pace. Un uomo che non mangia è chiaro che ti interroga. Ogni volta che lui iniziava il digiuno, per me era un misto di rabbia e un misto di crisi. Per lui significava digiunare quasi 20 giorni.
Poi ottenne gli altri piani del convento per la missione femminile?
Sì, adesso la missione femminile è più grande. Quando trovò questo ex convento vicino alla stazione fratel Biagio iniziò a dormire su una brandina fuori la porta dicendo che gli spazi servivano per accogliere sorelle e bambini. E allora a poco a poco, a furia di digiuni, di messaggi, di richieste li ottenne, allora come tutte le altre volte. Quando lui scopriva edifici abbandonati all’incuria ne tirava fuori qualcosa di bello, di accogliente. La difficoltà era dargli questi immobili in qualche forma, p.e. in comodato.
Nato da una famiglia di imprenditori edili, benestante, fratel Biagio ha fondato la Missione Speranza e Carità con dieci comunità (vedi box), spesso recuperando edifici abbandonati e trasformandoli in luoghi di vita. Come è diventato costruttore di pace?
Nel ‘90 se ne va di casa, lascia la sua carta d’identità, decide di andarsene perché soffre per l’indifferenza della gente. Sente questa società come malata. Trascorre un periodo in eremitaggio all’interno della Sicilia, poi va ad Assisi a piedi. Là comprende che il Signore gli affida qualcosa. Pensa di andare in Africa, poi comprende sempre più che il progetto di missione che il Signore gli mette in cuore è a Palermo. Torna nel capoluogo siciliano e comincia a occuparsi dei senza tetto, degli alcolisti, delle persone che scartiamo, incominciando a portare loro aiuto in stazione: thermos di latte e da mangiare. A un certo punto capisce che non può andare avanti così, anche perché la sera i cancelli alla stazione vengono chiusi, quindi questa gente rimane fuori. Comincia a chiedere per loro un piccolo posto dove andare, dove farsi una doccia, soprattutto per i più anziani. Nasce così in via Archirafi negli anni ‘90, la Missione di Speranza e Carità, la prima. Ma a un certo punto lo spazio non basta più perché arrivano i profughi. Inizia l’emergenza dei paesi in guerra dell’Africa, per questo nasce la missione di via Decollati, la Cittadella del povero e della speranza.
Questa sua accoglienza agli “stranieri” lo rendeva talvolta scomodo anche ai palermitani?
Sì. Noi siciliani siamo un popolo accogliente, però la storia ha cambiato un po’ anche noi. Siamo il primo punto di approdo per chi scappa dalla guerra, dalla fame, e un approdo non si nega mai a chi ha bisogno. Però il lavoro è poco e spesso anche i siciliani vivono situazioni difficili; a furia di sentire una certa propaganda che ti fa apparire lo straniero come colui che ti vuole prendere qualcosa, forse una gran parte di noi si è convinta che è proprio così. Non è così, evidentemente. Ma dare la colpa di quello che succede allo straniero, al diverso, è chiaramente più facile. La Missione aiuta moltissima gente di Palermo, Biagio, questa cosa me la diceva: “Qui mi fanno tante storie perché dicono che io metto insieme tutta questa gente che scappa, tutte queste persone che cercano, diciamo, fortuna qui, ma non si rendono conto che moltissima gente che noi aiutiamo è gente di qui”.
Palermo ha tributato a fratel Biagio un grande segno di affetto con la fiaccolata, dove migliaia di persone hanno accompagnato il feretro in cattedrale. Se lo aspettava?
Francamente non mi aspettavo questa fiumana di persone che lo ha accompagnato: la bara di Biagio sembrava scorrere su un fiume di gente, senza peso. Una donna non molto vicina alla vita ecclesiale, anzi molto critica anche nei confronti della Missione, mi ha detto di avere partecipato a questa fiaccolata perché le è sembrata la cosa più bella da fare per lui. Una meraviglia di un uomo che evidentemente tocca i cuori. Non solo dei poveri perché li aiuta, ma anche dei ricchi di beni materiali, ricchi di se stessi, perché in fondo l’amore, scomoda tutti, interroga tutti, stupisce tutti e lui questo ha distribuito.
Di che cosa vivono le persone nelle comunità?
La missione di via Decollati, per esempio, produce ogni giorno 200 kg di pane, ha una grandissima cucina, un forno grande. Questo grano viene dalla missione di Tagliavia, vicino Palermo, dove si produce grano che viene macinato a pietra. A Villa Florio si producono ortaggi che servono alle missioni ma anche a parrocchie povere. In fondo fratel Biagio era figlio di suo padre, un imprenditore, ma la sua finalità non è il profitto, ma la carità, l’amore e l’attenzione all’altro, quella missione che ha sentito da Dio e per cui ha dedicato la vita, l’intelligenza e tutto quello che poteva dare. Ancora a dicembre, con le poche forze che aveva, ha chiesto aiuto per pagare le utenze di gas, luce e acqua che ovviamente per le missioni sono un notevole costo. Loro vivono di provvidenza, non fanno soldi. La missione non riceve soldi, aiuta gli altri, si va avanti insieme. Adesso c’è un gran movimento di popolo che lo vuole aiutare.
Com’era il rapporto con l’arcidiocesi e con le istituzioni?
Mi ricordo che l’allora arcivescovo Pappalardo (1918-2006) capì che questo ragazzo, Biagio, che gli andava a dire “eminenza, venga a celebrare messa con noi a Natale in stazione” non era uno sbandato, un pazzo. Lui andò a celebrare e anche a rendersi conto. Ha sempre sostenuto Biagio, così come i cardinali De Giorgi, Romeo e adesso mons. Corrado Lorefice, che veramente era molto vicino a fratello Biagio. C’è una sorta di reciprocità, credo che la Chiesa di Palermo sia grata e guardi all’esempio di questo testimone del Vangelo, perché la Chiesa istituzionale viene benedetta da questo esempio di disegno di Dio così originale. Con le istituzioni Biagio aveva un rapporto molto vivace ma anche molto vero e credo che, con quello che hanno potuto fare, magari avrebbero potuto fare di più, non hanno comunque lasciato cadere nel vuoto le sue richieste.