Roma - vista dal Tevere. Foto di ©Nimrod Oren su Pixabay

I viaggi di formazione del 700

Se uno di noi fosse stato un nobile britannico o nord europeo, vissuto nel Settecento o nell’Ottocento, o un giovane intraprendente di buona famiglia o una signorina coraggiosa e di famiglia benestante, non avrebbe potuto completare la sua preparazione culturale e personale senza aver intrapreso un viaggio alla scoperta dell’Europa continentale per conoscere l’arte, la storia, la cultura, le forme politiche, i modi di vita che sono a fondamento della nostra civiltà.

“Non ci può essere cittadino di buona condizione economica che non voglia godere della conoscenza della Francia, della Germania e dell’Italia”, scriveva un viaggiatore nel 1772, quando già questo tipo di viaggi stava diventando una vera e propria “moda”.

Era stato classificato come “Grand Tour” da un prete inglese, cattolico romano, Richard Lassels, tutore di giovani nobili e scrittore di viaggi, nella sua guida, “The Voyage to Italy” (1670). Da allora fu così denominato il viaggio a scopo culturale e formativo, volto alla conoscenza delle antiche civiltà, di altre lingue, del mondo esterno. Ed in seguito venne utilizzato il termine “turismo” (da Tour) per definire più in generale i viaggi come “fenomeno di massa”.

Perché già nel ‘700 circa 100.000 inglesi e molte migliaia di tedeschi, scandinavi e russi si erano avventurati su questi itinerari, che avevano per meta obbligata l’Italia, considerata un autentico museo all’aperto, in cui si potevano ammirare le più importanti testimonianze delle civiltà greca e romana, ed inoltre i capolavori del Rinascimento, nonché le meraviglie della natura come le eruzioni vulcaniche del Vesuvio.

“Un uomo che non sia stato in Italia sarà sempre cosciente della propria inferiorità, per non aver visto quello che un uomo dovrebbe vedere”, riconosceva Samuel Johnson, uno dei più illustri letterati inglesi.

L’amore per l’Italia

Già dal secolo precedente l’Italia risultava la meta prediletta dagli stranieri, ma è nel ‘700 che diventa quasi un mito, la meta ambita dei viaggi dei “grand-tourists”. Non contano le condizioni precarie della nostra penisola, le istituzioni politiche arretrate, l’immagine della Chiesa di Roma offuscata dalle critiche della Riforma, e nemmeno l’eccessiva libertà dei costumi. Il ‘700 diventa il “secolo d’oro” dei viaggi in Italia, favorito dall’appoggio incondizionato della monarchia inglese, che finanzia i viaggiatori motivati con 300 sterline all’anno, e dalla politica culturale della Francia, che fonda, ancora nel 1666, l’Accademia di Francia a Roma, riconoscendo l’Italia come culla della cultura europea.

E ad alimentare i flussi del Grand Tour sono i rampolli delle nobili casate, i figli della classe borghese, accompagnati come “tutors” da uomini di cultura, artisti e letterati, ma anche uomini politici e diplomatici, mercanti e uomini d’affari, interessati al commercio di opere d’arte ed al collezionismo di oggetti e di reperti storici od artistici.

I consigli e la prime guide per un buon viaggio

Uno dei primi saggi dedicati al viaggio era stato “Of Travel” (1625) di Francis Bacon, statista, scienziato e filosofo, che consigliava al giovane “Grand-Tourist” la conoscenza della lingua dello Stato di destinazione, l’accompagnamento di un “tutor”, l’aiuto di una carta geografica, il frequente cambio di residenza, la provvista di lettere di presentazione e un diario a cui affidare le proprie impressioni.

Le prime rinomate guide di successo sono quelle di Maximilien Misson (“Memorie per i viaggiatori” del 1688 e “Nouveau Voyage d’Italie” del 1691), di Nugent e di De Lalande, che mescolavano le informazioni pratiche con le osservazioni sui monumenti, sugli usi e costumi, sulla topografia della città. Ma a disposizione dei “grand-tourists” c’era anche tutta una produzione di stradari e di “vademecum”, che fornivano istruzioni utili a vivere la quotidianità delle situazioni. Nell’800 Mariana Starke darà informazioni addirittura sui prezzi delle lavanderie e sugli indirizzi dei calzolai per signora di Napoli..

Era consigliata, soprattutto dai “tutors”, un’accurata preparazione al viaggio, che comprendeva itinerari, scelte di abiti, di carrozze e di locande, precauzioni, norme di sopravvivenza. Importante era la scelta dei compagni di viaggio. C’era chi, come il conte Burlington, viaggiava nel 1714 con 15 persone al seguito, o come William Beckford (1783), che si faceva accompagnare da un precettore, un medico, un musicista, un maestro di pittura e diversi servitori, o come Lady Blessington, ma siamo già nel 1826, che aveva un seguito così vario e numeroso da essere chiamato il “Blessington Cyrcus”.

Le condizioni di viaggio

Il corredo di un previdente viaggiatore era costituito da valigie, con modelli che andavano dal cuoio rigido alla pelle morbida, o da bauli di legno con copertura in pelle, e da tutta una serie di accessori (dai porta-abiti ai porta-letti alle cappelliere). Contenevano un po’ di tutto, caffettiere, teiere, bicchierini di corno, fornelletti a miccia, poggiatesta, orologi, termometri, chiavistelli adattabili ed anche un paio di pistole ed un pugnale, custoditi in una cassetta di sicurezza assieme ai documenti, ai passaporti, ai bollettini di sanità, alle lettere di credito, ad un po’ di denaro contante.

Non mancava il “nécessaire de voyage”, una valigetta di legno pregiato contenente oggetti d’oro o d’argento, utensili per la toeletta, i generi di confort, la scrittura od il cucito. Altri contenitori avevano la funzione di farmacie portatili.

Le condizioni delle strade per la gran parte lasciavano a desiderare, specie quelle di montagna e di collina. Le mete più ambite erano Venezia, Bologna, Firenze, ma soprattutto Roma e Napoli, in particolare dopo gli scavi di Pompei a metà ‘700 e la scoperta della città antica.

Di fondamentale importanza era la scelta della carrozza. Poteva essere una carrozza padronale per i signori, solida, stabile ed equilibrata, grazie alle balestre rinforzate ed alle doppie molle, super accessoriata, con pochi e comodi posti, magari preceduta da altre vetture di servizio.

Più economico e praticato era il viaggio con il vetturino, con cui si contrattava l’affitto della carrozza e dei cavalli, il vitto a menù fisso, l’alloggio ed il numero di tappe. Gli inconvenienti erano l’andatura lenta, i servizi di scadente qualità e la frequente richiesta di compensi supplementari. L’alternativa era il servizio di posta, ancora più scomodo e molto lento, in carrozze stipate e compagni di viaggio a sorpresa, definite da alcuni viaggiatori “prigioni e galere”.

Le locande

Sono soprattutto le stazioni di posta e le locande ad offrire una prima accoglienza (si fa per dire) al passeggero. A meno che uno con le amicizie giuste potesse contare su dimore private o permettersi alberghi urbani.

Le locande non godevano certo di buona fama, specie quelle del centro e del sud Italia, i viaggiatori si lamentavano per la contiguità con le stalle dei cavalli, per le camere gelide, i letti umidi, i soffitti coperti di ragnatele, l’assalto di cimici e pidocchi, l’assenza di latte e burro, e quindi ricorrevano a rimedi improvvisati, come quello di immergere le gambe del letto nell’acqua al vetriolo, spruzzare di lavanda o fornirsi di pastiglie di canfora contro parassiti vari o portare con sé serrature mobili di ferro per chiudere la porta dal di dentro.

Ma erano locande per i viaggiatori meno avveduti e meno abbienti, buona parte dei “gran-tourists” erano provvisti di lettere di presentazione che aprivano le porte di dimore private, più comode e meglio arredate. Per evitare spiacevoli sorprese, però, le guide consigliavano di portare al seguito lenzuola e coperte o addirittura una brandina da viaggio e un camicione da notte da indossare, per protezione, sopra i vestiti (Mariana Starke, scrittrice e viaggiatrice britannica).

Per un certo tipo di clienti, poi, certe locande e certi alberghi cittadini offrivano “i letti guarniti”, cioè confortati da una “graziosa pollastrella” (guida di Johann Georg Keyssler) ed erano prodighi di informazioni su alcune “città proibite”, come Messina o Venezia, intendendo il “Grand Tour” come viaggio di iniziazione non solo culturale. Così lo intendeva anche il giovane Lord Byron, annunciando ai suoi tutori di voler “compiere quel Grand Tour ritenuto da molte generazioni indispensabile per la formazione di un giovane, che doveva comprendere anche l’acquisizione di una certa familiarità con il vizio”. Ma siamo ormai nell’800, quando si andavano perdendo certi rigori morali.

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