Foto: padre Antonio Spadaro, ©A.Spadaro

Libro: “Una trama divina. Gesù in controcampo” di padre Antonio Spadaro. Intervista con l’autore

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 19-20). Era sera, dunque. Le porte erano chiuse. Il sentimento dei discepoli era paura. Così Giovanni ci presenta i discepoli: chiusi, al buio e timorosi. Quante volte proviamo questi sentimenti di sfiducia? Gesù era morto (…) Leggendo ancora sappiamo che questo, in realtà, è lo sfondo dark dell’apparizione del Risorto. Ci sono tutte le condizioni per una manifestazione gloriosa e dirompente: c’è il buio in sala e le luci possono essere accese in modo da accecare. Ma il racconto evangelico non va in questa direzione. (…). La sceneggiatura evangelica non è mai hollywoodiana (pp. 31-32).

Così inizia Una trama divina. Gesù in controcampo (Marsilio Editore, 2023) di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, la rivista quindicinale della Compagnia del GesùIl brano sopra citato, oltre ad essere adatto al tempo di Pasqua, mostra immediatamente lo stile del libro, descrive la scena, cambia prospettiva, inquadra ora i discepoli, ora l’insieme. Gesù è visto da opposte inquadrature, in controcampo, appunto. L’approccio cinematografico è già annunciato nel titolo: la trama può essere quella di un film, di una storia ma è anche di un tessuto nel quale si intrecciano i fili delle esistenze dei lettori che incontrano il protagonista di queste storie, Gesù. “Ci innamoriamo di personaggi talvolta” esordisce Spadaro nell’introduzione e la lettura de Una trama divina è una esperienza estetica, ovvero di fruizione artistica, prima ancora che spirituale e religiosa, e richiede una sorta di abbandono a lasciarsi tirar dentro la trama. Come ci può attirare il Vangelo oggi? Chi è Gesù per noi, che siamo una società non più protetta dalla forza della tradizione religiosa e da un cristianesimo come sostrato culturale collettivo? La scrittura di questo libro nasce da queste domande perché raccoglie gli articoli che Spadaro ha scritto per un quotidiano a commento del Vangelo della domenica nel corso di un anno, pensando quindi di rivolgersi a un pubblico non necessariamente preparato e vicino alla Chiesa. “Allunga la mano, tocca la fede” in esergo al libro è una citazione da una canzone della band britannica Depeche Mode (reach out, touch faith), cultura pop, popolare, linguaggio che arriva a noi, tutti. Padre Antonio Spadaro si richiama ad opere di diversi artisti, Andy Warhol, lo scrittore Erri De Luca, p.e., e così facendo raccoglie l’appello che papa Francesco nella prefazione al libro rivolge agli artisti di farci vedere Gesù con storie e immagini potenti. C’è in Spadaro una lingua che spiazza in riferimento al Vangelo e si leggono questi titoli, per esempio: Ad alta risoluzione, Il cielo non si addenta, Figli del tuono, Uscire dal parcheggio, Delitti e pene… Incuriosiscono, non rivelano il contenuto. Tutto ciò sia perché ha cura di rivolgersi a un pubblico anche non credente, sia per sfoltire il Gesù del Vangelo dalle immaginette che si sono sovrapposte a Lui e che ci siamo ritagliate di Lui: “A volte siamo oppressi da immagini di Gesù che sono, in realtà, più immaginette che ritratti efficaci (…) Questo libro li bandisce (i racconti edificanti, ndr.) mettendo spesso in evidenza i chiaroscuri, le asperità dei racconti evangelici (papa Francesco, p. 6). Una trama divina ci accompagna dentro il racconto del Vangelo, porta il nostro sguardo su ciò che si sta compiendo sotto i nostri occhi. Ne siamo presi e ne diventiamo compartecipi. Allora ci accorgiamo che questa riduzione all’essenziale è in realtà un’esperienza a tutto tondo; essa ha le sue radici negli esercizi spirituali del fondatore della Compagnia del Gesù, Sant’Ignazio di Loyola.

Padre Antonio Spadaro, un pubblico di lettori “impreparati” può essere un terreno fertile?

Quando si è molto preparati si crede di conoscere bene le cose, accade anche per i sentimenti. Quando si conosce una persona molto bene, si immagina di poter prevedere tutto. A volte è vero e questo è un fatto positivo, d’altra parte il rischio è che questa persona non rappresenti più una sorpresa, non venga vista, per esempio, nella sua particolare capacità di cambiare. Allora il fatto di essere impreparati, in qualche modo può essere utile nel senso che fa scoprire le cose e, se si legge un testo, è come se questo arrivasse tra le mani, all’ascolto, alla lettura, per la prima volta. Questa operazione è stata importante per Una trama divina perché mi sono reso conto che per parlare a un pubblico di lettori, quali quelli de Il Fatto Quotidiano, che non necessariamente hanno un’esperienza di chiesa o di lettura del Vangelo, fosse importante per me avere degli occhi freschi in rapporto al testo, quindi non dico dimenticare, ma comunque mettere da parte tutto un sostrato di riflessioni.

Come parlare oggi di Vangelo, di Gesù, di fede, dal momento che non è più possibile proteggersi dietro un linguaggio di tradizione che risulta vuoto a molti, anche dentro la Chiesa?

Una trama divina risponde esattamente a questa domanda: come raccontare il Vangelo, come parlare del Vangelo oggi. Il modo più semplice che ho trovato almeno quello che è frutto della mia riflessione è la narrazione, cioè non ragionare sul Vangelo, non fare discorsi astratti, ma proprio raccontare la storia, entrare nella trama stessa, appunto la trama divina, distinguere i fili che la compongono, ed esprimerli, riempirli, raccontarli, come se io fossi stato un testimone oculare. Il linguaggio che serve è questo. In fondo il linguaggio della tradizione, che poi si è accumulato nel tempo, nasce dalla testimonianza. Quindi il Vangelo è un testo da riraccontare e Una trama divina intende farlo.

Sono le persone a non capire la Chiesa o è la Chiesa che non capisce le donne e gli uomini del nostro tempo?

Non credo che si tratti di una non comprensione né da una parte né dall’altra, sarebbe troppo facile. Papa Paolo VI all’Onu parlò della Chiesa in termini di “esperta in umanità”. Questo è vero, una grande tradizione come quella della Chiesa, che ha attraversato i secoli, contiene un’esperienza dell’umano molto importante. Quindi direi che non si tratta di una non comprensione, semmai si tratta di un processo, cioè i cambiamenti, i fermenti culturali, le grandi visioni all’interno della società non sono di facile comprensione, per nessuno neanche per chi le vive. La Chiesa è fatta di uomini, vive di profonde tensioni al suo interno, a volte si parla di tradizionalisti e conservatori, termini non adeguati, ma che comunque fanno comprendere come la Chiesa non sia un monolite ma ci sia un dibattito interno molto forte. Allora la Chiesa abbraccia l’umanità perché la contiene, è fatta di umanità. È chiaro che poi ci deve essere una comprensione sempre maggiore, curiosità e questo è fondamentale per la Chiesa, che non deve mai perdere il desiderio di conoscere l’uomo fino in fondo e i fenomeni che accadono nella società che poi sono diversi perché le società sono diverse. Quello che vale per un paese africano può non essere valido in America Latina, ma piuttosto in Asia o in Europa. Secondo me la vera grande sfida è la comprensione delle diversità.

Viviamo in un’epoca di informazione, ma anche di disinformazione, di fake news, di incapacità di distinguere il vero dal falso, di ambiguità dei social media. Siamo immersi in un brusio di parole. La Sua riduzione all’essenzialità della scena, ai gesti nella lettura del Vangelo, è anche un invito a relazionarsi con l’autenticità di gesti, di parole pensate e di azioni nel mondo?

È un appello a tornare al gesto, a vedere con occhi nuovi. È molto bella la prefazione che papa Francesco ha scritto a questo libro, dove alla fine inserisce un appello agli artisti, fateci vedere Gesù, non dice, fateci capire Gesù. Il fatto di comporre la scena davanti ai propri occhi è come comporre quasi un setting di realtà virtuale in cui tu ti immergi nella storia. Questo è quello che chiede Sant’Ignazio nei suoi esercizi spirituali: non riflettere sul brano evangelico, ma entrarci dentro, come vedere la scena che si svolge e sentirsi partecipi, come un personaggio all’interno di una scena. In fondo è una sceneggiatura e questa intuizione papale mi sembra importante, ci riporta proprio all’essenzialità del gesto.

Lei scrive che leggere Una trama divina non richiede la fede, ma avere una fede poetica? Che cos’è? Si tratta di un’attitudine attiva o passiva?

Leggere questo mio libro non richiederà fede, nel senso che in fondo parla del personaggio Gesù che è uno, nessuno e centomila. Uno perché è se stesso, cioè una storia precisa. Nessuno, nel senso che in realtà è appunto centomila, cioè ci si può immergere nella storia, tutti si possono riconoscere. La sua storia diventa la storia di tutti, cambia secondo il lettore e cambia anche alla luce della mia esperienza, quindi io posso leggere più volte lo stesso brano evangelico e avere delle risonanze diverse, però la cosa fondamentale è abbandonarsi alla trama, ovvero ci vuole una volontaria sospensione dell’incredulità, perché altrimenti non si entra nelle vicende, non ci si immerge nella storia, ma ci si distacca dalla storia raccontata. Allora questa fede poetica è la fede in una storia raccontata che si prende per vera al di là del fatto che si abbia fede cristiana o meno. Se leggi ti immergi in una storia, rimani coinvolto. A questo punto può scattare la fede religiosa. C’è una fede poetica che è di base e quella è sufficiente per leggere il testo, poi si ci si può interrogare su che cosa significa questo per la mia vita. E se quell’uomo è davvero il Figlio di Dio.

Padre Spadaro, Lei è molto vicino a papa Francesco. Il Papa ha scritto la prefazione al libro di cui stiamo parlando. Recentemente poi è uscito il suo L’atlante di Francesco. Vaticano e politica internazionale (Marsilio Ed.). Può sintetizzare in poche battute qual è la novità che sta portando papa Francesco in questi dieci anni di pontificato?

Intanto questi dieci anni non sono un tempo per un bilancio, quanto direi per un rilancio. Questo pontificato è pienamente in corso e certamente sta portando una ventata di freschezza perché parlando soprattutto di un Dio misericordioso, Francesco ci ha fatto vedere lui stesso quello che chiede alla fine della prefazione al mio libro, cioè ci ha fatto vedere Gesù in maniera nuova. Una volta gli chiesi se lui intendesse fare la riforma della Chiesa. La sua risposta fu: “No” – disse – “voglio solo mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa. Poi sarà Lui a fare le riforme”. Quindi direi che non è niente di nuovo, ma nello stesso tempo tutto è nuovo, cioè questa tensione a mettere Cristo al centro della Chiesa e soprattutto a vedere la Chiesa, questo forse è una differenza rispetto al passato, come un ospedale da campo dopo una battaglia. Questa è stata veramente un’intuizione profetica. E su questo si basa, in fondo il mio libro L’atlante di Francesco, cioè analizzare la sua visione della politica internazionale, considerando come la Chiesa debba svolgere un ruolo di cura, sanare le ferite e le fratture in un mondo a pezzi, diviso da una terza guerra mondiale. L’intuizione della vocazione della Chiesa a curare le ferite, a risanare le vite che vanno perse, mi sembra il nucleo fondamentale della sua politica internazionale e della sua visione stessa della Chiesa e forse è uno dei punti salienti del suo pontificato.

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