A partire dalle vicende legate ai discendenti di avi residenti nei territori italiani dell’ex Impero asburgico, si sono confrontati politici e mondo accademico con il fondamentale contributo dell’Associazione “Trentini nel mondo”.
Tra i relatori anche l’on. Franco Narducci, vicepresidente della Commissione Affari esteri della Camera, che in sede parlamentare aveva intrapreso alcune azioni per la proroga dei termini della legge n. 379/2000, in materia di acquisto della cittadinanza italiana per i discendenti di emigrati dal Trentino e dagli altri territori uniti al Regno d’Italia nel 1919.

Di seguito il testo integrale dell’intervento dell’on. Narducci
Intervento dell’on. Franco Narducci,  “La cittadinanza tra immigrazione ed emigrazione”
Vorrei, in prima istanza, sforzarmi di delineare con sufficiente precisione il contesto, il quadro generale di riferimento entro il quale si situa in questi ultimi anni il dibattito sulla cittadinanza relativo all’immigrazione e alla diaspora italiana nel mondo.
Il nostro Paese è di fronte a tante sfide nuove, tra le quali quella dell’integrazione degli immigrati, a partire dai giovani e giovanissimi, è certamente tra le più complesse poiché in Italia l’immigrazione è argomento caldo, anzi caldissimo, che inevitabilmente porta  all’esasperazione degli interessi di parte. Al riguardo vorrei ricordare, con le parole del Presidente della Camera Gianfranco Fini, che la nazione non coincide con la lingua, la storia, il territorio o la popolazione, ma è piuttosto l’insieme di tutti questi fattori attraverso la “volontà politica“ di essere nazione.
Il successo del processo d’integrazione – lo hanno sperimentato milioni d’italiani in ogni parte del mondo – dipende molto dalla legislazione in materia di cittadinanza, destinata ovviamente a quegli immigrati che si sentono realmente coinvolti nella vita del Paese d’accoglienza; penso per esempio a quei bambini che già studiano nelle nostre scuole. I minori stranieri sono 868 mila. Di questi, ben 520 mila sono nati in Italia. Occorre già da oggi preparare il loro futuro di nuovi italiani. Anche il voto alle elezioni amministrative potrebbe promuovere l’integrazione, ma solo nella prospettiva della nuova cittadinanza e se è chiaro il principio che ai diritti corrispondono i doveri.
Nello scorso mese di dicembre nell’Aula di Montecitorio approdò il Testo di legge sulla cittadinanza agli immigrati portando con se le spaccature e l’alto livello di litigiosità del mondo politico su questo tema così importante. Nonostante la limitatezza del testo normativo all’esame dell’Aula parlamentare, che non contemplava in alcun modo le problematiche afferenti al riconoscimento e riacquisto della cittadinanza sollevate dagli italiani all’estero, il fatto che vi sia stata una battuta d’arresto nel percorso per affrontare le tematiche della cittadinanza costituisce un segnale estremamente preoccupante, infatti non se ne parla quasi più, il che ha contribuito ad aumentare il clima di delusione e frustrazione che avvolge tanti stranieri che hanno creduto e credono nel nostro Paese. Sono convinto che sarà molto difficile promuovere adeguate politiche su questi temi, come hanno fatto altre nazioni investendo tra l’altro consistenti risorse finanziarie, se non si cambia registro culturale, se non si passa attraverso la cultura dell’accoglienza e del rispetto dell’altro, assegnando anche il giusto ruolo alla memoria e ad un linguaggio che non deve essere offensivo come troppe volte sta accadendo in Italia anche grazie agli stimoli e all’esempio di alcune parti politiche che sostengono il Governo.
Occasioni come queste, dove è possibile confrontarsi in maniera pacata ed anche con l’ausilio di eminenti studiosi, possono costituire momento per  una riflessione più approfondita sulle ragioni di tanti italiani all’estero che si sono visti esclusi dalla proposta di legge sulla cittadinanza. Infatti, perché non consentire il riacquisto della cittadinanza ai figli di cittadina italiana nati prima del 1° gennaio 1948, o alla donna che, pur essendo stata cittadina italiana secondo lo ius sanguinis, ha perso tale status in seguito a matrimonio con cittadino straniero prima del 1° gennaio 1948, o ancora ai figli di almeno uno dei due genitori italiani, anche se nati prima del 1° gennaio 1948?
Nel nostro Paese spesso tali temi sono posti, a mio vedere, in modo fuorviante riducendo il problema del riconoscimento della cittadinanza ai discendenti o il riacquisto da parte delle summenzionate persone ad una questione elettoralistica o socio-assistenziale. E pensare che la diaspora italiana nel mondo è stata un’incredibile fonte di ricchezza per la madrepatria: nel 2000, in occasione della Prima Conferenza degli italiani nel mondo, si calcolo che l’indotto prodotto dalle comunità italiane emigrate verso l’Italia era pari a 120mila miliardi di vecchie lire! E tale flusso non ha perso di consistenza è stato soltanto convertito in euro. Vorrei ricordare anche che vi sono leggi non applicate su tale materia, come la legge n. 555 del 13 giugno 1912 concernente il riconoscimento della cittadinanza per discendenza, boicottata dalle rappresentanze consolari, mentre sul piano parlamentare non si procede, come si dovrebbe, alle necessarie riforme introducendo per esempio alcune modifiche tese a limitare il potenziale degli aventi diritto, così come ha fatto la Spagna.
Io credo che tanti discendenti italiani che guardano al nostro Paese con grande interesse rappresentino una ricchezza al di là del problema demografico italiano. Giova anche ricordare che in occasione dell’entrata in vigore della legge sulla cittadinanza n. 91 del 1992 furono espressi timori di valanghe di domande, timori smentiti poi dai fatti. 
E perché escludere, in un provvedimento di riforma generale della cittadinanza, le persone nate nei territori che sono appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920 ed emigrate all’estero prima del 16 luglio 1920? 
Come si può vedere il dibattito è aperto su più fronti ma nella sostanza credo che il nostro Paese debba prendere in considerazione la necessità di adeguarsi ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione contemplando nel proprio ordinamento sia lo ius sanguinis che lo ius soli, riconoscendo dignità di cittadini agli italiani che per vari motivi hanno perso la cittadinanza e accogliendo le persone straniere che si sentono italiani perché hanno scelto il nostro Paese quale luogo di vita, vi hanno intessuto relazioni lavorative ed affettive e ne condividono i principi costituzionali.
Ma torno alla ragione della mia presenza qui, che pur essendo rivolta al complesso tema della cittadinanza, vuole orientare l’attenzione al problema profondamente umano degli eredi degli italiani residenti nei territori italiani ex austroungarici annessi nel 1919.
Infatti migliaia di trentini emigrarono nei due periodi compresi tra la fine dell’ottocento e il 1914 e tra l’armistizio del novembre 1918 e l’annessione all’Italia con il Trattato di Saint Germain (10 settembre 1919). Molti di loro erano boscaioli e si recarono nelle zone boscose del Brasile ed in altre zone dell’allora Impero Austroungarico come l’attuale Croazia.
Ora non dobbiamo permettere che la mancata applicazione della legge n. 379/2000, in materia di acquisto della cittadinanza italiana per i discendenti di emigrati dal Trentino e dagli altri territori uniti al Regno d’Italia nel 1919, possa arrecare danno a questi soggetti poiché attualmente le domande possono essere presentate  fino al 20.12.2010 e si possa arrivare a garantire l’auspicata proroga di cui mi ero fatto portavoce, insieme ad altri colleghi, con un apposito provvedimento in Parlamento.
È necessario porre fine ad una discriminazione e lo chiediamo anche da questa sede, se c’è la volontà basta trovare in modo più appropriato per apportare insieme, maggioranza ed opposizione, le modifiche necessarie: vi è una Proposta di legge in materia siamo aperti a condividerla con tutte le forze politiche di buona volontà che hanno a cuore i diritti di cittadinanza rimediando alla disparità subita dai trentini, giuliani e dalmati residenti all’estero come già si era tentato di fare con la legge 379 del 2000.