Mentre la politica italiana si prodiga a tagliare qua e là per far quadrare i bilanci, risorse e prestigio del Paese se ne vanno all’estero con i nostri giovani cervelli. Un fenomeno tutto italiano che oggi analizziamo con i dati alla mano. Abbiamo abbandonato le valigie di cartone dei tempi che furono, ma continuiamo ad emigrare in cerca di migliori prospettive. Adesso, però, abbiamo decisamente una marcia in più: siamo per lo più giovani, talentuosi e con un gran curriculum.
Questo perché in Italia succede una strana cosa: più si è bravi e più si scappa, accolti con le braccia aperte da quei Paesi che reputano risorsa ciò che noi reputiamo rifiuto. Questa tendenza ce la conferma la Virtual italian Academy, un’organizzazione di accademici operanti all’estero che ha stilato una fortunata “top italian scientists”, cioè una lista dei nostri migliori scienziati in cui si indica accanto il Paese di attività.
Ebbene, questa lista ci dice che circa il 30% degli scienziati italiani opera fuori dai confini nazionali, Stati Uniti in primo luogo. Ma la cosa più importante è che più si sale la classifica più questa percentuale cresce, arrivando al 50% nei migliori primi 100. Uno su due dei nostri più bravi, insomma, decide di lavorare per Paesi terzi. La storia ci insegna che le principali potenze mondiali hanno sempre puntato su ricerca e innovazione, consapevoli che il settore è uno degli indicatori dello status di un Paese. Pensiamo allo sbarco sulla luna e alla guerra fredda, giocata proprio a colpi di innovazione. E pensiamo ai brevetti in campo farmaceutico o alla ricerca medica. Ebbene, noi italiani siamo davvero messi male.
Uno degli effetti è quello di delegare agli altri il nostro destino, anche nel campo della vita, rendendoci dipendenti e schiavi di terzi in un settore così redditizio, costoso ed importante. I danni li scontiamo in termini di prestigio e credibilità. E pensare che partiremmo avvantaggiati, visto che i nostri ricercatori all’estero risultano tra i più bravi al mondo, riuscendo a farsi finanziare i proprio studi di più dei loro colleghi stranieri, ben il 40% del totale negli States. L’importanza politica della ricerca è ben chiara anche all’Unione europea che, nel 2000, si riunì a Lisbona proprio con l’obiettivo di inquadrare una strategia ben precisa in questo campo. Nel 2002, gli Stati membri si impegnarono ad investire entro il 2010 il 3% del Pil in ricerca e sviluppo, in modo da ridurre il divario esistente con le superpotenze Giappone e Usa.
In questo senso l’Europa ha fatto poco, ma l’Italia ha fatto davvero pochissimo: siamo il fanalino di coda, al sedicesimo posto, con un investimento del solo 1,2% e dietro anche a Portogallo, Spagna ed Irlanda. Insomma, non ci siamo mossi dai livelli della metà degli anni ottanta, lontani da quel 1,9% della media europea e lontanissimi dall’oltre 4% di Svezia e Finlandia. Il divario si allarga ulteriormente, poi, se si va a vedere quanto le nostre imprese investono sul settore: solo lo 0,6 % del Pil, contro una media europea dell’1,2%. Ma ritorniamo alla Svezia. Il recente “Global ranking 2010” del Reputation Institute mostra come questo Paese vanti la migliore nomea nel mondo.
Tra i criteri utilizzati ci sono proprio gli investimenti in ricerca e sviluppo, così come i contributi donati al mondo ed altri fattori legati più o meno direttamente al settore. All’Italia rimane il primato della cultura, donatoci per fortuna dai nostri avi. Insomma, “viviamo di nomea”, come si dice in questi casi. Eppure, fino a qualche tempo fa, nel nostro Paese, e ancora oggi in gran parte del mondo, fare il ricercatore, fare lo scienziato era ragione di immenso orgoglio. Oggi, una madre italiana sarebbe probabilmente più contenta se il proprio figlio esprimesse il desiderio di voler fare da grande la “velina” o il calciatore piuttosto che lo scienziato, notoriamente alle prese con una vita difficile, stipendi da fame, precariato e disoccupazione, con l’aggravante di dover ogni giorno convincere gli altri e sé stessi dell’importanza del proprio mestiere.
Analizziamo allora le perdite economiche: quanto vale in soldi l’attività di uno nostro scienziato? L’Istituto per la competitività ha recentemente quantificato il valore di questo nostro capitale umano. Per farlo ha preso in considerazione i primi venti scienziati della “top italian scientists” della Via-Academy, che li aveva classificati in base ad un mix di citazioni e produzioni scientifiche. L’I-Com si è focalizzato sui brevetti, suddividendoli fra quelli in cui lo scienziato ha solo collaborato e quelli in cui ne è stato l’autore principale. I brevetti dei nostri 20 scienziati sono stati 301. Più del 50%, cioè 155, li ha visti addirittura come autori. Sono soprattutto in campo farmaceutico, seguito da quello della chimica e dell’Ict.
 Considerando che il valore medio di ciascun brevetto è di circa 3 milioni di euro (si va dai 10 mila del 9% agli oltre 150 mila dell’1%), il valore totale della produzione scientifica di questi 20 scienziati è di 861 milioni di euro, se si considerano solo quelli in cui ne è stato l’autore, e 1,7 miliardi se si considera il totale. Simulando un flusso di cassa ventennale, si arriva a circa 2 miliardi di euro per il primo e 3,9 per il secondo. Cinicamente parlando, allora, se ci tenessimo stretti i nostri scienziati, quanto potremmo guadagnare? Al netto dei costi, la carriera di uno solo di loro ci frutterebbe 63 milioni di euro, 400 se nel campo della chimica. Simulando i flussi di cassa, arriveremmo a 148 milioni di euro per il primo e quasi un miliardo per il secondo.