Giuseppe/Joe Petrosino era tornato in Italia dopo 36 anni di vita da emigrato in America, per indagare sui possibili legami tra capibastone siciliani e boss americani. Da quando all’età di 23 anni aveva indossato la divisa da poliziotto con il distintivo numero 285, la sua lotta contro la criminalità organizzata di Little Italy non si era mai fermata. Lui, Giusè, che aveva lasciato la sua Padula in provincia di Salerno a 13 anni per seguire la famiglia in America, che aveva lavorato come strillone e lustrascarpe, che aveva imparato l’inglese con un corso serale, era l’unico in grado di poter fare da tramite tra la polizia di New York ed il numero sempre crescente di immigrati italiani che arrivavano nel Nuovo Mondo e che, spesso cadevano nelle trappole della criminalità.
Petrosino non voleva solo boicottare i traffici delle bande malavitose, voleva circoscriverle, impedire che si organizzassero in forme più complesse e che arrivassero a contaminare ambienti sempre più alti. Come quelli politici. Era onesto, giusto. E pretendeva onestà e giustizia. Per sradicare il problema alla radice, però, era necessario tornare in Italia ed andare in Sicilia. Solo sull’isola si sarebbero potute trovare le prove che avrebbero incastrato e fatto immediatamente rimpatriare i boss più influenti come Vito Cascioferro, Ignazio Lupo, Joe Morello. L’autorizzazione per la missione in Italia arriva dal Capo della Polizia Americana Bingham, nel 1909. Petrosino ha 49 anni. Da poco si è sposato ed ha avuto una bambina, Adelina. Quella è la missione che il detective aspetta da tutta la vita.
Il 9 febbraio 1909 in via del tutto segreta, il poliziotto italo-americano si imbarca sul battello Duca Di Genova e parte per l’Italia stringendo tra le mani una borsa portadocumenti piena di liste di nomi su cui fare ricerche o da contattare. Durante il viaggio ha modo di inviare un telegramma al fratello Michele che, in quel periodo, era ritornato a Padula. Vuole fargli sapere che sta arrivando dall’America e che passerà per il paese natale. Per motivi di sicurezza si firma Giuseppe Di Giuseppe.
Arrivato in Italia si ferma prima a Genova, poi a Roma. Nella capitale prende contatto col Capo Gabinetto del governo Giolitti Camillo Peano e, successivamente, con il capo della Polizia Francesco Leonardi. Quest’ultimo gli consegna una lettera diretta a tutti i questori della Sicilia per agevolare il suo soggiorno e le sue indagini. Nella stessa giornata del 27 febbraio Petrosino lascia Roma e prosegue per la Campania diretto a Padula dove arriva intorno alle ore 13.53. Ormai a quell’ora in paese si è già diffusa la notizia del ritorno a casa dell’illustre compaesano. In molti escono dalle case per vedere compà Giusè. In molti vogliono parlargli o anche solo stringergli la mano. Di Petrosino hanno appreso le gloriose imprese attraverso le lettere dei familiari emigrati. Quelle imprese, a Padula, si sono trasformate in vere e proprie leggende.
Il fratello Michele lo accoglie nella casa dove avevano vissuto da bambini. Ha preparato un pranzo di benvenuto in suo onore ed è contento di averlo di nuovo così vicino. Come quando in America avevano condiviso la stessa stanza in una piccola pensione per ben 4 anni, prima che ognuno prendesse la sua strada. L’orologio a pendolo posto sopra la tavola della stanza da pranzo non segna ancora le due e mezza che la famiglia riceve una visita inaspettata: è un amico, un vicino di casa, arrivato con un giornale sotto al braccio. Il titolo in prima pagina riporta a caratteri cubitali la notizia del viaggio di Joe Petrosino in Italia. È un duro colpo per il poliziotto. Fino a quel momento era assolutamente certo dello stato di segretezza della sua missione.
Il fratello Michele lo prega di rimandare la sua discesa in Sicilia. Invano. Quella a Padula sarà per Petrosino una notte insonne: chino sulla sua scrivania il poliziotto tenta di rimettere insieme i tasselli di quella strana “soffiata”. Vuole capire. Tentare di individuare il nome della talpa, dell’uomo che lo ha tradito. Solo dopo si scoprirà che a svelare la missione di Petrosino in Italia è stato lo stesso capo della Polizia Bingham. L’uomo aveva concesso un’intervista ai giornalisti americani forse sperando in un pizzico di pubblicità. Ma la soffiata, dice Petrosino a suo fratello, potrebbe anche essere partita contemporaneamente dall’Italia. Ormai la missione è compromessa. Ma non si può più tornare indietro. Joe Petrosino arriva a Palermo con il Postale partito da Napoli il 28 febbraio.
La prima tappa è l’archivio della Polizia. I fascicoli contenenti le informazioni che cerca sono completamente vuoti. La missione da “compromessa” diventa “impossibile”. Eppure senza neanche un passo indietro il poliziotto continua a svolgere indagini anche fuori dal capoluogo. Fino alla notte del 12 marzo. Il suo sarà un calvario di omertà e reticenza. Ma anche di errori e ingenuità. In Sicilia Petrosino si fida delle persone sbagliate e sarà ucciso da due uomini che si erano finti informatori. L’autorità di cui è investito non serve a salvarlo. Forse perché non ha fatto i conti con i più forti interessi che l’“Alta Mafia” era arrivata a difendere in quella fase di ascesa al potere internazionale.
I suoi parenti vengono allontanati da Padula e nascosti in un luogo segreto, probabilmente in California, per paura di ulteriori ritorsioni. Si è diffusa la voce che qualcuno volesse sterminare l’intera famiglia. La figlia Adelina verrà a sapere la vera identità del padre solo all’età di otto anni leggendo i fumetti ispirati alle sue imprese.