Vedere i tedeschi scoperti a barare e costretti a pagare può dare soddisfazione, ma c’è ben poco da godere per l’Italia. Secondo gruppo automobilistico mondiale dopo Toyota, la Volkswagen rappresenta per la componentistica made in Italy quello che Cina è per la moda italiana. Circa l’8% di un’auto tedesca è composto con elementi di provenienza italiana e l’azienda di Wolfsburg è titolare sia del marchio Audi – gli interni delle cui vetture sono allestiti con materiale lavorato in Italia – sia del marchio Ducati (moto), italianissima azienda i cui dipendenti applaudirono alla notizia dell’acquisizione da parte del colosso tedesco. “L’Italia è il maggior fornitore di espositori per Messe Frankfurt (la Fiera di Francoforte ndr), in gran parte delle fiere tedesche, le imprese italiane e i buyer italiani sono nelle prime posizioni. Molte imprese italiane sono subfornitrici delle grandi industrie tedesche che vanno nel mondo” – ha sottolineato Donald Wich, managing director di Messe Frankfurt Italia in un’intervista a Linkiesta.
Il gravissimo incidente in cui è incorsa la Volkswagen, dunque,  proprio non ci voleva. Men che meno dopo il deprezzamento della divisa cinese, che poche settimane fa aveva già inferto un duro colpo all’export italiano, segnatamente nel settore della moda. Per capire quanto l’uno-due svalutazione dello yuan-scandalo Volkswagen sia grave per l’Italia basti pensare al settore della pelletteria, essenziale per la moda non meno che per l’auto (Mastrotto e Pasubio sono due marchi che forse non dicono molto a chi non è appassionato di motori, ma sono due esponenti del made in Italy che forniscono pellame per rivestire gli interni del gruppo Volkswagen).
Il settore dell’auto è già di per sé in una fase di sostanziale riduzione del proprio perimetro di estensione e di trasformazione: Sergio Marchionne studia di accorpare Fca con General Motors e intanto si fa vedere a bordo dell’auto sperimentale di Apple che si guida da sola, perché sa che gli acquisti dell’auto così come la conosciamo oggi sono destinati a ridursi (dunque occorre che i players si fondano per mantenere una massa critica e una varietà di modelli sufficienti a metterli in salvo dall’estromissione dal mercato e dall’estinzione) e a innovare profondamente il prodotto  fornito (anche se le Apple car finora si sono dimostrate troppo giudiziose su strada, incorrendo in incidenti provocati da guidatori umani, meno ligi in tema di rispetto del codice della strada). I fornitori di semilavorati, cioè di prodotti inutilizzabili in sé ma che servono per completare altri prodotti (come le auto appunto), devono dunque già mettere in preventivo una possibile riduzione dei propri acquirenti, nel caso delle automobili per l’evoluzione di quel  particolare settore industriale. Il caso Volkswagen non fa che accelerare drammaticamente questa tendenza – in Borsa tutti i titoli automotive sono stati penalizzati, per l’idea di una maggior repulsione verso l’auto dovuta a motivazioni ambientaliste, la Ue ha ora disposto che tutti i suoi Stati membri dispongano verifiche sul parco auto circolante (e questo potrebbe comportare il ritiro di migliaia di veicoli e nel peggiore dei casi la messa fuori produzione di var imodelli) – anche perché è dubbio che in un mondo sempre più improntato alla sharing economy – quella per la quale l’auto non la si compra più ma la si noleggia il tempo necessario (con una sostanziale riduzione complessiva del parco vetture circolanti) appare dubbio che il terreno che Volkswagen appare destinata a perdere nel breve periodo possa essere interamente occupato nel medio termine dai competitors del gruppo tedesco