Mi era venuto in mente, per questo primo numero del 2011, di impegnare la prima pagina con le uscite pedòfile della nostra classe dirigente romana, con le loro minorenni, con i loro travestiti, con il loro codazzo giubilante di leccascarpe, con i loro nani e le loro ballerine. Avevo poi pensato di parlare di questi eletti all’estero, soprattutto –ma non solo- nelle fila della maggioranza; della loro maniera di grattarsene le uova dei problemi della gente, o di gettare l’occhio già oggi alle poltrone di domani; avevo pensato, sì, e me ne scuso, di parlare di loro, di questi morti viventi, elettrizzati solo dalle lasagne in Parlamento.
Poi mi ha fatto presente la mia collega che quest’anno, anzi, proprio in questo mese di gennaio, il giornale su cui scrivo e a cui ho dedicato gli ultimi dieci anni della mia vita celebra sessanta anni di esistenza. È un tema migliore senz’altro! Meno malinconico. Da sessant’anni questo giornale lotta contro i mulini a vento della indifferenza e cerca di creare una comunità da questa massa di individualisti sfrenati che sono gli italiani in Europa. Da sessant’anni cerchiamo di restituire la dignità sociale ad un popolo di vinti che questa dignità non la vuole. Da sessant’anni, accompagnati da qualche missionario, da qualche suora e da qualche altro volontario con il brivido dell’infinito, abbiamo fatto di tutto.
Abbiamo parlato coi carcerati. Abbiamo raccontato le storie della prima immigrazione. Abbiamo sostenuto il bilinguismo. Abbiamo tuonato contro le scuole differenziali. Abbiamo sbeffeggiato l’Amministrazione (che tenta di farcela pagare). Abbiamo difeso la presenza dei consolati sul territorio. Abbiamo chiesto la difesa della piccola azienda in gastronomia. Siamo stati sempre là dove la gente aveva bisogno di noi, mentre il giornale, da dieci anni a questa parte, ha moltiplicato la tiratura per dodici, è presente in tutta la Germania ed ha creato per l’Europa un periodico settimanale in web. Pensandoci, e voltandoci un attimo indietro, qualcosa abbiamo fatto. Le gioie? Non sono state tante, ma profonde.
Ne racconto una. Bevevo un cappuccino da Gennaro, alla stazione di Francoforte, di ritorno forse da Berlino. Una faccia sdentata e arguta di vecchia italiana mi viene vicino. Lei è dei giornali? Cosa fa? Scrive cosa? Poesie ne scrive? No, signora, poesie non ne scrivo, però ne leggo quando posso. La vecchia tira fuori dalla tasca del grembiale un rotolo di carta e mi dà le sue. Sono belle! -dice. È tutto. Se ne va guardando verso terra, la faccia colorata di timidezza, ed io finisco il cappuccino. Le poesie le ho lette. Raccontano di una vita che non è stata mai un giro turistico; una vita umana spesso devastata ma silenziosa e riconoscente. Alla fine del rotolo, un tratto che ricorda Marco Aurelio. Lo riprendo adattandolo alla lingua del giornale: „Sii contenta del destino che hai e ama le persone con cui vivi“. Grazie, sconosciuta, delle tue poesie, sono davvero belle!