La fede cristiana non offre di per sé un programma politico. In un certo senso, anzi, la politica è divisione mentre la fede è cattolica (cioè universale). Non del tutto a caso quando abbiamo avuto in Italia un partito cattolico (la Democrazia Cristiana) esso ha manifestato la tendenza ad essere un partito/ non partito, un partito/Stato, e questo è il motivo vero della diffidenza verso ogni progetto di “ricostruire la Democrazia Cristiana”.
La fede non offre un programma politico ma non è politicamente irrilevante. Offre principi e visioni che non sono compatibili con ogni politica anche se possono essere declinati in più di un modo solo. Si può essere uniti sui valori e sulla visione dell’uomo ma dividersi poi sulla modalità di realizzarli in una determinata fase storica. Per questo di fatto la unità dei cattolici non si realizza mai senza residui. Alcuni rivendicano sempre legittimamente il diritto ad una diversa militanza. Si pensi solo a Franco Rodano ed ai cattolici comunisti.
È tuttavia innegabile che esista in Italia, accanto al timore del ritorno della Democrazia Cristiana, una diffusa nostalgia di Democrazia Cristiana, e non solo fra i cattolici. Perché?
La questione della Democrazia Cristiana si mescola con la questione della rilevanza dei cattolici nella politica e nella società italiana. Le due questioni non coincidono fra loro ma sono connesse. Cominceremo con la questione democristiana.
Cosa è stata davvero la Democrazia Cristiana?
È stata certo un partito cattolico nel senso che gran parte dei suoi quadri dirigenti venivano dalla Azione Cattolica (è stata, in questo senso, il partito della Azione Cattolica) e che essa ha cercato di ispirarsi alla dottrina morale e sociale della Chiesa. Il suo successo però non dipende solo e neppure prevalentemente dalla appartenenza religiosa. Perché gli italiani hanno massicciamente votato la Democrazia Cristiana? Renzo De Felice ha detto che l’8 settembre del 1943 è morta la patria. Forse non è morta la patria ma certo è morta una certa idea della patria, perché nel fascismo confluisce una gran parte della tradizione risorgimentale. Davanti al vuoto della tradizione nazionale si delinea la prospettiva della rivoluzione comunista. I cattolici si incuneano in questo vuoto di rappresentanza politica nazionale. La DC è il partito della diga anticomunista. La sua funzione storica è quella di fermare il comunismo. Il Partito Comunista sente fortemente questa funzione della Democrazia Cristiana e la denuncia. Denuncia la continuità fra Democrazia Cristiana e fascismo. C’è del vero: gran parte degli elettori democristiani qualche anno prima avevano battuto le mani a Mussolini. La DC sostituisce il Partito Nazionale Fascista come ostacolo al trionfo del Partito comunista. Ma è solo questo la DC? Evidentemente no. Il Fascio è una convergenza di forze diverse unite da una unica preoccupazione: battere il comunismo, ad ogni costo e con ogni mezzo. Con ogni mezzo significa: anche a costo di diventare altrettanto spietati ed anzi più spietati dei comunisti, altrettanto menzogneri ed anche più menzogneri, altrettanto violenti ed anche più violenti… In altre parole: nella loro opposizione assoluta comunismo e fascismo si collocano ambedue sul terreno del primato della politica sulla morale.

Ciò che unisce il fascio è l’anticomunismo e la sottoposizione al potere di un Capo che assume una funzione demiurgica.
De Gasperi vuole battere i comunisti sul terreno della democrazia e non vuole opporre la
dittatura nazionale alla dittatura comunista e vuole una politica morale nel consapevole rifiuto della politique d’abord. Per questo è un antifascista. Il partito di De Gasperi (a differenza di quello di Mussolini) sarà un partito di centro e non un partito di destra. In quanto partito di centro e partito democratico la Democrazia Cristiana avrà un chiaro confine a destra contro i fascisti, i razzisti ed i populisti. Sarà un partito di centro alternativo alla sinistra e con un chiaro confine a destra.
Per svolgere questa funzione storica la DC offre una alleanza alle forze politiche di tradizione risorgimentale ed ai socialisti che si pongono sul terreno della democrazia per un recupero critico della tradizione nazionale e per una sua rifondazione. Questo patto va oltre i limiti della maggioranza di governo. I comunisti, bloccati sul percorso della conquista rivoluzionaria del potere secondo il modello sovietico/internazionalista sono stati costretti, in un certo senso, a nazionalizzarsi, ad assumere in modo positivo una identità nazionale ed a vincolarsi alle forze della tradizione nazionale. Senza la vittoria democristiana del 1948 è assai dubbio che nel PCI il pensiero di Gramsci avrebbe avuto il peso che poi invece ha avuto ed è anche dubbio che si sarebbe mantenuta la leadership di Togliatti.
Questo Patto nazionale si prolunga in un Patto Costituzionale che offre a tutte le forze politiche la partecipazione ad una democrazia contrattata che si rivelerà poi straordinariamente vitale.
C’è infine un patto sociale che mobilita le energie dei ceti produttivi. Soffermiamoci per un attimo su questo punto. I Marxisti erano convinti che con il tempo la piccola borghesia fosse destinata a scomparire e alla fine si sarebbero fronteggiati fra loro il campo proletario e quello del grande Capitale. I democristiani hanno puntato sulla piccolo borghesia, sui ceti medi che resistevano alla proletarizzazione. Questi ceti medi sono stati anche la base di massa del fascismo. Nel loro entrare in campo i cattolici in Italia hanno preso la guida di questi ceti medi indipendenti. Lo hanno fatto perché la dottrina sociale cristiana vede nella crescita dei ceti medi la soluzione della questione sociale. Lo hanno fatto perché questo settore socialmente decisivo era rimasto privo di rappresentanza e di guida politica. La DC ha fatto questo dentro un progetto nazionale. Gramsci insegna che l’interesse di classe può assumere due forme: una pura o corporativa ed una impura ovvero egemonica. Nella sua forma pura l’interesse di classe afferma semplicemente (brutalmente) gli interessi di un gruppo sociale in conflitto con altri. Nella forma impura o egemonica l’interesse di classe si fa carico della costruzione di un blocco sociale, cioè di un sistema di alleanze capace di governare il paese. Rimane il riferimento ad un particolare interesse sociale, ma tale riferimento è pensato in modo tale da non opporsi ad altri interessi sociali ma, al contrario, da conciliarsi con essi. È per questa visione che la DC può essere, al tempo stesso, il partito della piccola borghesia ed il partito interclassista. Il riferimento alla piccola borghesia rimarrà prioritario ma esso sarà accompagnato dalla preoccupazione di disegnare un modello di sviluppo includente e non escludente, un sistema di alleanze sociali il più ampio possibile, tale da abbracciare in qualche modo anche l’avversario. La visione democristiana è invece opposta: il compito della politica è preservare la pace, impedire o stemperare il conflitto, sia quello interno che quello esterno, sia la guerra fra le nazioni che la lotta fra le classi. Si è spesso detto che la DC ha sempre avuto una classe dirigente più a sinistra del suo corpo elettorale. Adesso siamo in grado di intendere esattamente il senso di questa affermazione, esattissima ma spesso fraintesa. L’elettorato democristiano è prevalentemente fatto di ceti medi e l’espressione immediata dei loro interessi ed anche della loro coscienza spontanea porta ad un conflitto senza mediazioni con la sinistra. La DC ha espresso questo elettorato dentro il triplice patto, nazionale, costituzionale e sociale che abbiamo menzionato, dentro cioè lo sforzo di una mediazione che tenesse conto anche delle ragioni dell’avversario.
Adesso siamo in grado di comprendere meglio il senso (i sensi) del diffuso desiderio di non vedere tornare la DC. Per alcuni nel sentimento anti democristiano si esprime la protesta contro una politica che, assolutizzando il momento della mediazione e spingendolo fino alla ricerca dell’unanimismo, finisce con il diventare incapace di fare le riforme di cui il paese ha bisogno che passano necessariamente anche attraverso il momento del conflitto. Per la verità De Gasperi non era certo uomo che temesse il conflitto o che fosse disposto a qualunque compromesso pur di evitare il conflitto. Certamente però nella successiva tradizione democristiana talvolta la mediazione politica è diventata un valore assoluto e si è dimenticato che per fare buoni compromessi politici bisogna amare senza compromessi la verità.
Per altri invece non si tratta solo di evitare la assolutizzazione del momento della mediazione. Si tratta al contrario di assolutizzare il momento del conflitto e di negare la funzione di una lettura ampia, egemonica, dell’interesse di classe. Se si guarda al vocabolario ed al modo di esprimersi della nuova destra che ha cercato di sostituire la DC si vede come esse voglia affermare gli interessi dei ceti medi senza mediazioni, in forma immediata e brutale, senza cercare una sintesi con altri interessi e sensibilità. Si vive, di conseguenza, in un clima di guerra civile permanente in cui (per fortuna) il giudizio delle urne sostituisce quello della armi. Il giudizio delle urne è però spesso inconcludente, e le riforme non si fanno lo stesso. La ragione non è qui un eccesso ma una carenza di mediazione politica che non permette di aggregare coalizioni sufficientemente ampie e forti.
Simmetricamente si chiarisce anche il senso della diffusa nostalgia di Democrazia Cristiana. Nel suo aspetto positivo essa è la indicazione di un problema irrisolto della democrazia italiana. I ceti medi mancano di una guida politica e di un progetto nazionale che consenta loro di governare il Paese. La nostalgia di DC non è tanto nostalgia del partito cattolico quanto nostalgia di una politica nazionale dei ceti medi italiani. Mai come adesso essi sono stati quantitativamente ed economicamente rilevanti, mai come adesso essi sono stati minacciati nelle loro condizioni fondamentali di esistenza, mai come adesso essi hanno avuto bisogno di una politica e mai come adesso essi sono stati politicamente irrilevanti.
I cattolici italiani diventano politicamente rilevanti perché nella crisi del fascismo sanno offrire ai ceti medi italiani una rappresentanza politica ed un progetto nazionale. Il ceto medio italiano ha seguito De Gasperi ed ha seguito Mussolini. Esso può essere guidato da posizioni di destra oppure da posizioni di centro. Da posizioni democratiche o da posizioni antidemocratiche. I cattolici lo hanno guidato da posizioni di centro. La dottrina sociale cristiana diventa un fattore politicamente attivo quando aggrega un blocco di forze sociali attorno ad un programma. La convergenza fra cattolici e ceti medi fu favorita dal fatto che la dottrina sociale cristiana ha sempre combattuto la polarizzazione della società fra una piccola minoranza di molto ricchi ed una vasta maggioranza di miserabili. In qualche modo la dottrina sociale cristiana ha sempre favorito una società in cui tutti fossero o potessero diventare ceti medi.
La questione della rilevanza politica dei cattolici si incrocia qui con quella della rappresentanza politica dei ceti medi. Il sistema italiano sarà sempre squilibrato fino a che non si ricostruirà la rappresentanza politica dei ceti medi. I cattolici italiani possono concorre alla soluzione di questo problema politico? Vogliono farlo?
I cattolici potrebbero non volerlo fare. Già nell’epoca democristiana alcuni cattolici hanno combattuto contro una Chiesa che rischia di identificarsi con la classe media. Essi hanno pensato che il cattolici dovessero prima di tutto identificarsi con la classe operaia per poter rievangelizzare e recuperare un proletariato scristianizzato. Al tema della centralità ideale della classe operaia si è accompagnato spesso (non sempre) quello di una necessaria scelta a sinistra. Questa posizione si è coniugata (di nuovo: spesso ma non sempre) con l’adozione della analisi marxista. Marx vede nella piccola borghesia (che adesso chiamiamo ceto medio) una sopravvivenza del passato destinata a scomparire per essere sostituita da una società interamente capitalista con pochissimi super/ricchi ed una massa sterminata di proletari. In questa prospettiva le politiche democristiane a favore dei ceti medi dovevano apparire necessariamente come politiche di conservazione parassitaria e clientelare destinate ad essere sconfitte. È successo invece che hanno vinto. La società moderna è una società di ceti medi (in Italia in misura ancora più grande che in altri Paesi) ed è la classe operaia invece che è diventata sempre meno numerosa e si è anche decomposta. Una parte del cattolicesimo di sinistra è stata dentro la sintesi democristiana. Ha rappresentato gli interessi degli operai dentro la società dei ceti medi. Si tratta della sinistra democristiana. Il suo ruolo è stato tutt’altro che marginale. Senza di loro non ci sarebbe stato l’interclassismo democristiano. Un’altra parte si è schierata con la sinistra politica ed affronta insieme con essa il problema di una difficile ridefinizione della propria identità. La scelta per la classe operaia perde di forza in una società in cui la classe operaia perde peso e visibilità sociale. Resiste la scelta preferenziale per i poveri che diventa anzi una priorità per tutta la Chiesa. Essa rischia però di diventare una semplice richiesta di più mezzi per la spesa sociale. Richiesta legittima ma che non risponde alla domanda fondamentale: come si generano le risorse che consentono di finanziare uno stato sociale generoso? E come si utilizzano queste risorse nel modo più efficiente?
Si usa spesso dire che la DC crolla perché con la fine del comunismo viene meno la sua funzione storica.
Se fosse vero non sarebbe stata sostituita da forze politiche (il berlusconismo, Forza Italia, il Popolo delle Libertà) che fanno dell’anticomunismo il perno della propria identità.
La verità è più complicata. Negli anni ’80 prevalgono in tutti i Paesi occidentali politiche neoliberiste e viene meno il compromesso mondiale fra capitalismo e socialdemocrazia che aveva finanziato una spesa sociale generosa con più debito e più tasse. Erano le cosiddette politiche keynesiane. C’era la convinzione che, tenendo alta attraverso la spesa sociale la domanda di beni e servizi, la economia nel suo complesso fosse stimolata alla crescita. Oltre certi limiti queste politiche non funzionano più e generano inflazione senza crescita (la cosiddetta stagflazione). Reagan e Thatcher reagiscono a questa situazione diminuendo la spesa e le tasse e dando via libera agli "spiriti animali" del capitalismo. La ricetta funziona e sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna riprendono a crescere. La sconfitta della spinta espansiva del comunismo che era venuta crescendo negli anni ’70 e poi il suo crollo sono (anche) una conseguenza di questa ripresa vigorosa della economia dei Paesi occidentali. Questa rivoluzione liberale in Italia non ha luogo. La DC non riesce ad affrontare il conflitto sociale e politico che sarebbe stato necessario per ridare slancio alla economia del Paese. Al contrario, la mediazione sociale necessaria a mantenere la pace sociale si sbilancia troppo contro i ceti medi che sono la base sociale di riferimento del partito. Il punto di rottura arriva con il governo Amato. Davanti alla minaccia del collasso la DC aumenta drammaticamente le tasse invece di diminuire la spesa. I ceti medi si sentono traditi e le ritirano la delega a rappresentarli. Berlusconi intuisce che, se è vero che il comunismo è finito, la lotta fra i ceti medi e lo statalismo che minaccia di espropriarli continua. Semplicemente adesso lo strumento della espropriazione non sono le nazionalizzazioni ma l’aumento senza fine del carico fiscale. Contro una DC che ha mediato tanto da dimenticarsi infine quali sono gli interessi che rappresenta Berlusconi impersona la rivolta del ceto medio che vuole pagare meno tasse, anzi più radicalmente che non vuole pagare le tasse. È una rivolta che rifiuta ogni mediazione (in questo senso è radicalmente antipolitica) e proprio per questo si condanna infine all’isolamento ed alla sconfitta. La rivoluzione liberale di Reagan e della Thatcher risulta impraticabile in Italia.
C’era un’altra via? C’è un’altra via?
È indubbio che l‘ esigenza di un forte recupero di competitività sia attuale oggi più ancora che negli anni di Reagan e della Thatcher. Con la caduta del comunismo (1989) e con gli accordi di Marrakech (1994) per la istituzione del WTO (Organizzaione Mondiale per il Commercio) miliardi di uomini che prima morivano di fame all’interno di economie di sussistenza sono entrati nel mercato mondiale. Al loro dinamismo dobbiamo gran parte della crescita mondiale degli ultimi anni. Allo stesso dinamismo dobbiamo le accresciute difficoltà competitive delle nostre imprese. Non è possibile competere con il cinesi o gli indiani su produzioni a basso contenuto tecnologico ed alta intensità di lavoro. I loro costi del lavoro sono troppo più bassi dei nostri. Per il necessario recupero di competitività sono aperte due vie. Una punta sulla compressione dei salari e dei diritti del lavoro. L’altra punta sulla innovazione di sviluppo e di processo per fare cose che i Paesi emergenti non sanno fare o per adottare metodi di produzione che questi Paesi non sono in grado di adottare.
La via di Thatcher e Reagan punta semplicemente sul taglio delle tasse e sulla liberazione degli spiriti animali del capitalismo. Sotto la pressione di Giovanni Paolo II (enciclica Centesimus Annus) e di Helmut Kohl l’Europa ha cercato di elaborare un modello diverso.
Esso condivide con i neoliberisti l’esigenza che ogni uomo debba essere responsabile per il proprio destino ed essere quindi stimolato a provvedere a se stesso attraverso la propria iniziativa ed il proprio lavoro.
Pone però con forza l’accento sul valore della solidarietà. A chi non ce l’ha fatta bisogna offrire una seconda occasione e nessuno deve essere abbandonato.
La via europea, inoltre, non vuole distruggere lo stato sociale ma riformarlo riducendo i costi delle burocrazie che lo gestiscono ed assumendo invece le famiglie ed il sistema delle famiglie e del volontariato come interlocutori stabili di tutte le politiche sociali. Lo Stato non deve sostituire ma sostenere le reti di solidarietà sociale costruite dalle famiglie e dal volontariato. Ciò permette di diminuire i costi ed il carico fiscale migliorando contemporaneamente i livelli di soddisfazione degli utenti.
Infine il modello europeo sa che la produttività dipende in modo essenziale dalle infrastrutture materiali ed immateriali che sostengono il lavoro. Nella nostra fase storica hanno una particolare importanza le infrastrutture immateriali: ricerca, sviluppo, innovazione, formazione professionale, la qualità della scuola e della università…
L’investimento pubblico in questi settori sostiene in modo decisivo la competitività del sistema economico.
La Democrazia Cristiana non ha saputo stare al passo con la rivoluzione liberale degli anni ’80 e con le nuove politiche imposte dalla globalizzazione negli anni successivi.
Berlusconi ha cercato senza successo di imitare il modello della Thatcher e di Reagan.
Quanto al modello europeo di Helmut Kohl nessuno (ad eccezione di forze assolutamente minoritarie come il CDU) lo ha mai seriamente proposto in Italia. Esso, inoltre, è stato anche sconfitto in Europa, simbolicamente con il rifiuto di accogliere nella Costituzione il riferimento alle radici cristiane e praticamente con la bocciatura della Costituzione europea nei referendum francese ed olandese. L’indebolimento conseguente delle istituzioni comunitarie ha fatto venire meno il progetto europeo e questa è la ragione per cui l’Europa si è trovata indifesa davanti alla crisi.
Nel periodo 1978/2005 i cattolici a livello europeo contribuiscono in modo decisivo a costruire risposte alla crisi del comunismo. Si pensi a Solidarnosc in Polonia, al Magistero sociale di Giovanni Paolo II, alla spinta data alla democratizzazione dei Paesi dell’Europa centrale ed orientale, alla riunificazione tedesca, all’allargamento ad est, all’euro che ha saldato la Germania alla Europa occidentale ed ha permesso ai Paesi ex comunisti di entrare in Europa invece di essere semplicemente annessi ad un impero economico tedesco… È stata la grande stagione del Partito Popolare Europeo. A questa vitalità l’Italia ha partecipato pochissimo ed anzi in quegli anni si è consumata la crisi della Democrazia Cristiana. Nella fase successiva si può parlare di irrilevanza dei cristiani nella politica europea in modo simmetrico a quello con cui si può parlare di irrilevanza dei cattolici nella politica italiana.
La generalizzazione del permissivismo etico per via legislativa e la rinuncia a qualunque resistenza contro la società liquida degli egoismi individuali ha preso il posto della politica senza peraltro affrontare in alcun modo le questioni decisive della crescita e dello sviluppo. Adesso la crisi impone queste questioni e fa lievitare una nuova domanda di politica.
Certo, i cristiani non possono entrare in politica per imporre una loro agenda a tutela dei loro valori particolari. Se vogliono essere politicamente rilevanti devono proporre risposte per i problemi di tutti. Questo non significa che debbano rinunciare a difendere e proporre i loro valori. Questi valori devono però essere incorporati in una piattaforma politica che individui ed affronti le grandi questioni del nostro tempo, come seppero fare nel tempo loro Alcide De Gasperi ed Helmut Kohl. Bisogna andare oltre una visione limitata per la quale la politica dei cattolici è chiamata a difendere gli interessi mondani della Chiesa. La domanda bruciante oggi è: hanno i cattolici qualcosa da dare per rispondere ai problemi ed alle domande del nostro tempo?
Il riferimento al Partito Popolare Europeo aiuta ma da solo non è decisivo. Anche il PPE ha bisogno di essere rinvigorito e di ritrovare se stesso riformulando il grande progetto di Giovanni Paolo II e di Helmut Kohl.