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Il conflitto tra Israele e i palestinesi sta vivendo da più di un mese uno dei suoi momenti più terribili e oggi, con migliaia di morti e nessuna risoluzione in vista, la pace sembra più lontana che mai

L’incursione del 7 ottobre di Hamas in territorio israeliano e la risposta militare che questa incursione ha generato da parte di Israele nella Striscia di Gaza hanno messo ancora una volta questo territorio nell’occhio del ciclone.

Ma le incomprensioni tra la Palestina e Israele non sono nuove e gli ostacoli al raggiungimento di accordi per porre fine a questo conflitto esistono da decenni.

I confini di Israele e del futuro Stato palestinese, lo status di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati, la condivisione dell’acqua e l’uso della violenza come arma politica sono stati, fin dall’inizio, alcuni dei principali ostacoli che hanno impedito il progresso di una proposta di pace.

C’è di più: l’espansione negli ultimi anni degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, così come le divisioni interne dalla parte palestinese e la mancanza di volontà politica da entrambe le parti, hanno aumentato le difficoltà che rendono sempre più difficile la possibilità di due Stati – uno palestinese e uno israeliano – che vivano fianco a fianco in pace.

Ma anche i conflitti peggiori alla fine possono trovare la via della pace. E forse, proprio adesso dove a regnare è lo scetticismo e il rifiuto di una risoluzione, parlare di pace rappresenta il momento più importante per iniziare a farlo.

Quali ragioni ci sono per credere che la pace in Palestina e Israele sia possibile?

Nei conflitti in più di 80 Paesi, tutti hanno forti particolarità che li rendono unici ma ci sono anche elementi chiave che si ripetono in ognuno di essi. In particolar modo, si pensi, alle guerre in Sudafrica, Ruanda, Cambogia e Sierra Leone, solo per fare alcuni esempi. In questi citati conflitti ci sono tre aspetti identici in tutti loro, nonostante le profonde differenze: uno, erano tutti convinti che la pace fosse impossibile per loro; due, hanno tutti raggiunto la pace; tre, hanno tutti seguito gli stessi passi chiave per passare dalla violenza al tavolo del dialogo.

Per quanto riguarda il primo e il secondo punto, è importante notare che tutti e quattro sono stati considerati conflitti traumatizzanti e complessi e allo stesso tempo, intrattabili e prolungati. Come per il conflitto israelo-palestinese, vale la pena sottolineare che c’è stato un lungo periodo in cui il mondo e loro stessi erano assolutamente convinti che la pace fosse impossibile nel loro caso. Pur sapendo che altri l’avevano raggiunta, erano tutti convinti di soffrire di qualcosa di unico, di più grave o più complicato di quello che altri avevano sofferto e che li portava a entrare in una sorta di fatalismo collettivo in cui dicevano a sé stessi e agli altri: “sì, ma voi non capite il nostro caso, la pace non lo raggiungeremo mai qui”. Alla fine però ci sono riusciti tutti, con la principale differenza del tempo impiegato, mentre vite e generazioni sono state inutilmente perse durante la loro incredulità.

Uno dei problemi di chi soffre per un conflitto complicato e prolungato è l’incapacità di immaginare una realtà diversa dall’unica che conosce. Nel caso della Palestina e di Israele – un conflitto iniziato nel 1948 – non c’è una sola persona sull’intero pianeta di età inferiore ai 75 anni che abbia visto con i propri occhi una soluzione pacifica tra questi due paesi. Mai. Anzi, basta solo sentire le due parole Palestina e Israele messe insieme perché il nostro cervello ne aggiunga automaticamente una terza: conflitto o odio, a seconda della nostra vicinanza al problema.

Il primo compito sulla strada della pace è quello di riuscire a immaginare qualcosa che non si è mai visto: una Palestina-Israele in pace, dove i palestinesi si dedicano all’educazione dei loro figli per un futuro radioso senza bisogno di lasciare la loro terra, e gli israeliani passeggiano rilassati nella loro senza bisogno di essere armati. Chi è in grado di immaginarlo può forse anche pensare come, man mano che palestinesi e israeliani si godono la vita in pace e libertà, impareranno anche a conoscersi e a unirsi per trarre vantaggio da ciò che li rende complementari e migliori.

Non oggi, non domani – la strada sarà certamente lunga – ma ci arriveranno, proprio come hanno fatto altri paesi. Certo sembra difficile da immaginare, ma non dobbiamo confondere i limiti della nostra immaginazione con la realtà di ciò che è possibile realizzare. Perché la storia ci insegna che ci sono stati altri che hanno percorso questa strada e ci dimostrano che si può fare. Come, ad esempio, il Sudafrica che è passato dall’avere il sistema di segregazione razziale più istituzionalizzato e vergognoso del mondo a essere conosciuto come la nazione arcobaleno, grazie al gran numero di gruppi etnici presenti nel Paese; o come la Cambogia che è passata da un regno del terrore a un paese oggi stabile. Lo stesso dicasi anche per la Sierra Leone e il Ruanda.

Questi Paesi non sono ovvio dei paradisi dove tutto funziona bene, tutti vivono con le loro sfide e le loro imperfezioni, ma sono ormai liberi dal peggiore dei mali: le guerre che, non solo hanno prodotto morti, ma hanno anche impedito ad intere generazioni la possibilità di poter impiegare la propria vita per la costruzione di un futuro migliore.

Nonostante questa conferma storica che la strada dalla violenza alla pace è possibile, nei confronti del caso della Palestina e di Israele ancora una volta pensiamo: “Sì, ma qui è diverso”, considerando un illuso o un idealista chi dice che la pace è possibile. Se altri popoli così diversi sono riusciti a superare situazioni così gravi, perché non poterlo pensare anche per il conflitto israelo-palestinese?

È da considerarsi forse più grave questo conflitto per il numero delle persone uccise, a quello del Ruanda, dove in soli 100 giorni 800.000 persone sono state brutalmente uccise a colpi di machete? Più grave della Cambogia, dove ci sono state sofferenze indicibili che hanno portato al genocidio di un quarto della popolazione totale del paese con circa due milioni di vittime?

Nemmeno in termini di durata, possiamo considerare il problema tra Israele e Palestina più grave rispetto ad altri paesi, se si pensa ad esempio all’Irlanda, dove c’è stato uno dei conflitti più violenti dell’Europa occidentale, iniziato con Enrico VIII nel XVI secolo e terminato solo nel 1998.

Questa mancanza di speranza tra la Palestina e Israele non è causata da un’analisi razionale, ma dalla convinzione di massa che qualsiasi cosa si faccia, le cose andranno male e quindi non vale la pena agire. Ma è altrettanto vero che le cose possono essere cambiate partendo dalla convinzione che occorre fare qualcosa di più.

Come si passa dalla violenza alla via della pace?

I conflitti violenti presentano tipicamente una catena di vendette in cui qualcuno uccide mio figlio ed io mi vendico uccidendo il figlio appartenente al gruppo rivale, e così via. E in conflitti prolungati, come anche nel caso della guerra in Medio oriente, questa catena si prolunga attraverso diverse generazioni, educando i figli a vendicarsi dei propri genitori.

Come si passa da questa catena di violenza alla via della pace? Arriva un momento in cui qualcuno rompe la catena, decide di smettere di vendicarsi e sceglie di sedersi a parlare con il proprio nemico. Ma come è possibile? È perché si decide di perdonare l’altro? No, niente del genere.

Ci sono due modi per uscire dalla strada della violenza e sedersi a parlare di pace. Il primo è legato a figure carismatiche, nobili e sagge che riescono con il loro esempio e le lore parole a spezzare la catena della vendetta e condurre le parti in causa alla pace. Il caso più noto è quello di Nelson Mandela, che dopo 27 anni di carcere (entra in carcere a 40 anni e ne esce a 68), dopo aver perso figli e figlie, è riuscito a spezzare la catena della vendetta e a passare alla pace. Uscendo dal carcere, Mandela non solo decide di perdonare coloro che hanno causato a lui e al suo popolo un dolore inimmaginabile, ma dice anche ai bianchi che ha bisogno di loro per costruire il Paese.

Purtroppo, persone straordinarie come Mandela con questa grande statura umana, non sempre si trovano e forse nemmeno sono necessarie per il raggiungimento della pace. Esiste anche un percorso diverso. Un percorso che è alla portata di tutti e che dipende da un istinto presente in ogni cultura del pianeta, senza eccezioni.

Questo istinto si chiama amore, quell’amore “ordinario” che caratterizza la specie umana, e che porta tutti quanti noi ad amare i nostri figli e le nostre figlie.

Pensiamo, ad esempio, ai genitori israeliani o palestinesi che hanno appena visto uccidere uno dei loro due figli. C’è un primo momento di dolore infinito che di solito sfocia in rabbia, odio e desiderio di vendetta. Dopo un po’, la rabbia viene gradualmente sostituita da una profonda tristezza. Questa tristezza, a prescindere dal dolore che porta con sé, è un’emozione più serena della rabbia, e in questa serenità si apre la possibilità di iniziare a riflettere e a chiedersi: e adesso? Perché è necessario costruire un futuro per il figlio sopravvissuto, e il desiderio di vendetta può essere molte cose sostituito da un progetto di pace per il futuro. Ed è questa ricerca di un futuro per i figli sopravvissuti che fa spezzare la catena, decidere di non vendicare il figlio morto e capire che bisogna sedersi e negoziare la pace con il nemico. Non lo fa per empatia nei confronti del suo nemico; non lo fa perché ha necessariamente perdonato qualcuno. Lo fa per amore dei suoi figli: per il futuro di quelli che verranno.

Ma allora come mai nel caso della Palestina e di Israele, in 25 anni questa transizione verso la pace ancora non si è verificata?

Probabilmente il processo di pace non è nemmeno iniziato, il che lo rende interminabile, perché quando un paese come Israele si sente più forte e con più potere rispetto al suo nemico, difficilmente si siederà al tavolo della mediazione e della negoziazione, nella convinzione che con quella sua forza e potere riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi principali.

Questo è vero per qualsiasi Paese con potere, è una caratteristica umana, ed è così che si è sentito anche Israele negli ultimi anni. Ma la situazione è cambiata qualche mese fa. E non vogliamo attribuire colpe né all’una o all’altra parte.

Mi pare importante ricordare che un obiettivo indiscutibile di Israele fin dalla fondazione del Paese è stato sempre garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Il raggiungimento di tale sicurezza è stato un dibattito centrale nella società israeliana con posizioni diverse, alcune più vicine al negoziato con i palestinesi e altre all’uso della forza. E in questi ultimi anni Israele si è sempre più affidato alla forza militare per la propria sicurezza, allontanandosi sempre di più dal dialogo con i palestinesi. La maggior parte degli israeliani ha creduto che questa strategia stesse funzionando, mentre una minoranza sempre più esigua riteneva che non fosse così. L’uccisione di 1.400 civili israeliani il 7 ottobre 2023 è la conferma oggettiva del fallimento della strategia di sicurezza di Israele basata sulla forza militare.

È la prima volta in 25 anni che gli israeliani hanno dovuto sedersi a un tavolo di negoziati veri e propri, con l’obbligo di raggiungere un accordo reciprocamente accettabile.

A prescindere dal contenuto dei negoziati, il sedersi assieme ad un tavolo segnerà di per sé una pietra miliare straordinaria, perché darà inizio al processo di pace, rendendolo finalmente concreto. E anche se la strada sarà difficile si riuscirà senza dubbio a raggiungere un futuro dignitoso per entrambe le popolazioni.

Ciò che sta accadendo ora entrerà nei libri di storia. Spetta a questa generazione di israeliani e palestinesi decidere se queste migliaia di morti saranno le ultime prima di sedersi di nuovo a negoziare la pace, o se lasceranno assurdamente passare un’altra generazione per ritrovarsi esattamente allo stesso punto, ma con tanti altri morti in più. E sta a noi spianare la strada per aiutarli ad arrivarci il prima possibile e nelle migliori condizioni possibili.

Ci stiamo avvicinando alla celebrazione del Santo Natale. E mi viene in mente il vangelo di Luca che al capitolo 2 racconta della nascita di Gesù, della visita dei pastori e del canto degli angeli sopra la grotta di Betlemme: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Tutti sappiamo che si tratta della nuova traduzione del “Gloria” che già da qualche anno è entrata nel nuovo Messale Romano. Ma per decenni ci eravamo abituati ad augurare la pace in terra agli “uomini di buona volontà”. E quella frase è entrata anche nei nostri modi correnti di dire, per designare un tipo di umani positivi, costruttivi, creatori di legami, capaci di perdonare: “di buona volontà” appunto.

Il grande Sant’Agostino, nel suo discorso 193 sul Natale del Signore, commenta: “Ora che siamo sulla terra, ricerchiamo la pace con buona volontà … Chiunque vuole la vita e desidera vedere i giorni del bene si allontani dal male ed operi il bene: facendo così sarà un uomo di buona volontà. Cerchi la pace e la persegua”.

E allora, ne sono convinto, cercare e costruire la pace è solo una questione di “buona volontà”. Buon Natale a tutti.