Nella foto: un reattore distrutto a Fukushima. Foto di ©IAEA Imagebank

Il ricordo della catastrofe, il confronto con l’attualità, le incertezze sul futuro. Una lezione che l’umanità non sembra aver imparato

La pandemia da Coronavirus ha gettato il pianeta in una situazione di totale incertezza, parola astratta che ha improvvisamente assunto un significato concreto e percepibile. Ma, a ben pensarci, “incertezza” è una parola che caratterizza i campi più svariati dell’esistenza umana, dall’economia alla fisica, dall’ingegneria, alla medicina, alla politica e via dicendo. Il che altro non significa che questo: la nostra vita è permeata di incertezza.

Ma che cos’è esattamente l’incertezza? Aldilà delle varie definizioni che è possibile trovare, l’incertezza altro non è che la misura del nostro grado di ignoranza. Quanto più di un certo fenomeno ignoriamo i meccanismi specifici e le cause che lo determinano, tanto più non siamo in grado di prevederne il comportamento. L’incertezza diventa imponderabilità quando il grado di ignoranza è assoluto. Grazie alla scienza oggi disponiamo di conoscenze e strumenti con cui possiamo realizzare cose che erano impensabili soltanto un secolo fa. Esistono tuttavia molte altre cose che ancora non riusciamo a fare. Tra queste, prevedere esattamente il momento, il luogo e l’intensità di un terremoto.

L’11 marzo prossimo in tutto il mondo verrà ricordato l’incidente di Fukushima. L’11 marzo di dieci anni fa un terremoto di magnitudo 9 della Scala Richter provocò uno tsunami che sconvolse Giappone. In una manciata di secondi il terremoto spostò l’intero arcipelago giapponese avvicinandolo di due metri al continente asiatico. La centrale nucleare di Fukushima fu colpita violentemente. Era situata a pochi metri dall’acqua dell’Oceano Pacifico, un nome che in quell’occasione si rivelò drammaticamente inappropriato.

Nei giorni successivi ci furono esplosioni nei quattro reattori della centrale. L’ambiente circostante fu investito da livelli di radioattività sempre più alti. Progressivamente il territorio fu evacuato fino a un raggio di 30 km dalla centrale. Decine di migliaia di persone dovettero lasciare in fretta le proprie abitazioni. Molti di loro non vi avrebbero fatto più ritorno. Temendo un altro tsunami e un secondo disastro nucleare, il governo giapponese decise subito di chiudere la centrale di Hamaoka situata sulla costa a circa 200 km a sud-ovest di Tokyo. Decisione saggia che poteva e doveva essere presa anche per Fukushima.

La catastrofe lasciò tutti sgomenti, ma anche increduli. Per molti fu difficile comprendere come mai un popolo intelligente come quello giapponese avesse potuto costruire centrali nucleari proprio sulla costa davanti ad una delle placche tettoniche più a rischio di terremoti del pianeta. È possibile che nessuno tra politici, amministratori, ingegneri e tecnici abbia ipotizzato un nesso di tipo causa-effetto tra terremoto, tsunami e catastrofe nucleare? “Tsunami” è una parola giapponese e vuol dire onda (nami) del porto (tsu). Il suo significato è drammaticamente semplice: un’onda anomala di grande altezza produce danni maggiori in un porto (e nella sua città) piuttosto che su una spiaggia libera.

Nel marzo 2011 nel mondo erano in esercizio 443 centrali nucleari. Gran parte di esse in Europa. Nella sola Germania ce n’erano diciassette. Con una decisione che fece scalpore, Angela Merkel e il suo governo decisero di smantellarle progressivamente. Lo smantellamento completo è previsto per il 2022 e attualmente ancora sei centrali sono in esercizio. Tre verranno dismesse entro la fine del 2021, le altre tre un anno dopo. La Germania è stata l’unica grande nazione a prendere una decisione così drastica. In molti altre parti del mondo, Europa compresa, si è continuato e si continua a costruire centrali nucleari. Persino in Giappone sono tornate in esercizio alcune di quelle disattivate dopo Fukushima. Attualmente il numero complessivo di centrali attive nel mondo è 443, esattamente lo stesso di dieci anni fa. Su scala globale oltre il 60% di esse è ubicato in cinque paesi: Stati Uniti (94 centrali), Francia (56), Cina (50), Russia (38) e Giappone (33) – fonte: IAEA, International Atomic Energy Agency.

La vita operativa di una centrale nucleare varia dai 20 ai 60 anni anni e dipende dalla tecnologia impiegata in fase di costruzione. Gran parte delle centrali in funzione negli Stati Uniti, in Russia o in Europa ha una tecnologia che risale agli anni settanta/ottanta del secolo scorso. Questo significa che sono vicine al termine della loro vita operativa e all’inizio della fase di smantellamento, una fase densa di problematiche legate allo smaltimento delle scorie nucleari altamente radioattive, smaltimento che richiede tempi lunghissimi (da 100.000 a 1 milione di anni) e procedure costosissime.

Nonostante i numerosi aspetti problematici, nuove centrali verranno realizzate nel prossimo futuro. Secondo l’IAEA, 50 sono le centrali attualmente in costruzione. Di esse 12 in Cina, 6 in India, 4 in Corea del Sud, 3 in Russia, 3 negli Emirati Arabi Uniti, 2 negli Stati Uniti, 2 nel Regno Unito, 2 in Giappone, 2 in Ucraina, 1 in Francia. Come si vede, nuove centrali sono in costruzione anche in Ucraina e Giappone, paesi in cui hanno avuto luogo gli incidenti di Chernobyl (1986) e di Fukushima (2011).

Le nuove centrali avranno standard di sicurezza avanzati, certamente superiori a quelle delle centrali costruite in passato. Certamente superiori agli standard di sicurezza di Chernobyl e di Fukushima. Ma esiste una centrale totalmente sicura? La domanda, a dieci anni dal disastro in Giappone e a 35 anni da quello in Ucraina (allora appartenente all’Unione Sovietica, ndr) è inquietante. Lo è in considerazione della gravità delle conseguenze di un eventuale incidente. Ma lo è anche perché nessuno è in grado di dare una risposta precisa e veritiera.

Pochi anni prima della catastrofe di Fukushima la società tedesca Gesellschaft für Anlagen- und Reaktorsicherheit (GRS – Società per la sicurezza dei reattori atomici, ndr) pubblicò uno studio sulla sicurezza delle centrali nucleari in Germania. Nello studio c’era un paragrafo dal titolo apparentemente rassicurante: “Probabilità come indice di sicurezza”. In esso venivano citati i metodi usati per calcolare la probabilità che in uno dei reattori allora in funzione in Germania accadesse un incidente e di questa ne veniva fornito il valore: 4 x 10 elevato alla -6, ovvero 4 per milione, cifra che corrisponde ad un incidente ogni 250.000 anni di funzionamento. Questo risultato fu contestato da due docenti di statistica delle università di Bielefeld e di Monaco, i professori Kauermann e Küchenhoff rispettivamente, in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung che suscitò molto scalpore. Mettendo in relazione la sicurezza delle centrali nucleari a quella degli aeroplani di linea e facendo alcune assunzioni, i due docenti conclusero che nei successivi dieci anni la probabilità di avere un incidente in uno degli allora 17 impianti in funzione in Germania ammontava al 9%. Nove per cento. Tra nove per cento e quattro per milione c’è una bella differenza, non c’è che dire.

Quando si studiano sistemi complessi si fa uso di modelli matematici, rappresentazioni semplificate della realtà. In essi vengono considerate le variabili in gioco e le relazioni che le legano. Più il numero di variabili cresce, più aumentano le relazioni, più il modello diventa complesso, più aumenta la probabilità di compiere errori. La differenza tra i risultati dei due professori di statistica e quelli della società GRS dipende dai diversi modelli di riferimento. Essa è così grande da suscitare diffidenza sulla validità delle assunzioni e degli stessi modelli impiegati. Fukushima docet e tuttavia l’umanità non sembra aver imparato la lezione.

Si è calcolato che fino ad oggi l’incidente abbia avuto un costo di oltre 200 miliardi di dollari. Soldi spesi per la sola ricostruzione. Si tratta dei costi quantificabili, dei costi che sono stati quantificati. In essi non sono computate le vite perse, che sono state oltre 20.000, come non è computato il danno sull’ambiente, incluso quello marino sul quale incombe il problema dello smaltimento della enorme quantità di acqua radioattiva usata per raffreddare i tre reattori danneggiati. Secondo il ministro dell’Ambiente giapponese sversarla in mare sarebbe l’unica opzione possibile. Nei dieci anni trascorsi dall’incidente il comportamento della società Tepco, responsabile della gestione delle centrali, è stato caratterizzato da occultamenti e tentativi di depistaggio. Tutto il mondo è paese.

In ambito europeo l’incidente avrebbe dovuto aprire un dibattito, approfondito e serio, sulla necessità di avere una politica energetica condivisa e libera dal nucleare. Questa doveva essere la lezione di Fukushima. La risposta, tanto per cambiare, è stata diversa in ogni paese. Il dibattito c’è stato, all’inizio, sull’onda dell’emozione del primo momento. Poi via via la questione è stata dimenticata. Le conseguenze di questa mancanza di visione e strategia comuni le misureremo in occasione del prossimo incidente.

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