Nella foto: Bandiera del Napoli. Foto ©Wikipedia

Una città che cerca anche una sua rivincita

Secondo la psicoanalisi i traumi rimossi, cioè subiti e non elaborati, creano disagi e malessere. Anche la città di Napoli è afflitta da disagi e malessere che vengono ogni tanto a galla con comportamenti estremi, inspiegabilmente esagerati, sempre chiassosi.   

Studiosi di vario tipo, scrittori e autori di fiction hanno fatto fortuna, raccontando quest’insofferenza verso ogni ordine imposto dall’alto, questo senso di ribellione e di perenne contrasto alle regole, Il tutto senza una ragione evidente e comprensibile, molto simile all’anarchia ma senza anarchici.

E si capisce. La povera Napoli è un poco psicotica e non è certo colpa sua poiché afflitta da un grave trauma, mai del tutto elaborato, un trauma che risale all’Infanzia dello Stato Italiano.

Questa città, la quale stava per i fatti suoi  pacificamente bene e aveva buoni rapporti culturali e commerciali con tutto il Mediterraneo e con tutta Europa, fu da un giorno all’altro, senza nemmeno una regolare dichiarazione di guerra, vittima di un’aggressione da parte piemontese nel 1860.

Fu così che la capitale del Regno delle due Sicilie si vide nell’arco di pochi mesi emarginata e bollata a patria di straccioni, semianalfabeti, delinquenti cronici e allegri musicanti. Ora decidete Voi: se questo non è un trauma di tipo freudiano, che cos’è?

È ovvio che la storia viene scritta dai vincitori e quei vincitori calati dal Nord (chissà perché le invasioni calano sempre dal Nord e non salgono mai dal Sud…)  avevano tutto l’interesse di passare come liberatori “di un popolo oppresso”, civilizzatori “di un popolo incolto”, regolatori “di un popolo privo di regole”.

La vera città di Napoli dell’epoca, pienamente cosciente di essere pure all’avanguardia europea tecnologica, culturale e anche sociale, dovette beccarsi quindi non solo le fucilate dei piemontesi ma anche l’umiliazione e l’infame propaganda dei conquistatori e con lo smacco di una resa senza l’onore delle armi.

Eppure, se il centro urbano di Napoli fu salvato da sanguinosi scontri armati contro i Garibaldini pilotati a distanza dai piemontesi (acclamati dalla popolazione, scrivono i libri stampati a Torino) lo si deve solo al senso di umanità di Re Francesco II di Borbone, il quale lasciò la città (lasciò la città e non scappò!) per spostarsi a nord col proprio esercito ed affrontare gli invasori in aperta campagna.

Nessuno riesce ad immaginare cosa sarebbe successo se il Re fosse rimasto in città con cinquantamila uomini ben armati. Il macello sarebbe stato inevitabile (altro che accoglienza trionfale) e il genio militare garibaldino non sarebbe emerso tanto facilmente in una guerriglia urbana tra vicoli stretti, che solo i napoletani conoscono a memoria e che avrebbero intrappolato anche le leggendarie Camice Rosse del Generale repubblicano, a proposito: unico repubblicano al servizio di un Re, il Re Savoia.  

Vabbuono, è andata così. I Borbone di Napoli avevano certamente fatto il loro tempo, Francesco II di Borbone era un ragazzino di soli ventiquattro anni completamente inesperto in fatti di guerra e circondato da persone poco leali e scarsamente fedeli, un ragazzo afflitto da mille scrupoli di fronte a un branco di lupi famelici capeggiati dal lupo più lupo di tutti i lupi: Garibaldi Giuseppe: professione combattente!

Vabbuono, l’unità d’Italia è cosa giusta, “La bandiera di tre colori è la più bella… e trullallà”, ma gli sputi in faccia dopo le cannonate sparate per mesi sulla fortezza di Gaeta, dove un eroico Re si è era arroccato, ebbene quelle umiliazioni (ecco il trauma freudiano!) Napoli e tutto il resto appresso del Meridione non se le erano meritati.    

E che c’entra lo scudetto? C’entra, c’entra poiché Napoli, che ai tempi dell’invasione aveva inaugurato la prima ferrovia d’Italia, il primo naviglio a vapore nelle acque del mediterraneo, andava la sera all’opera nel primo teatro lirico d’Italia, adottava le prime serie misure sociali per i meno abbienti e godeva di tanti altri primati, ora festeggia un primato sportivo e grida a tutto lo Stivale: A faccia vosta! Stavolta siamo noi primi davanti a voi tutti!

È solo calcio? No! non è solo calcio, è piuttosto il tentativo innocuo di elaborazione di un trauma rimosso e, ironia del destino, a restituire le cannonate subite (ovviamente solo nelle reti avversarie) è stato un ragazzo africano, nigeriano certo Victor Osimhen, a dimostrazione che l’invasione, ogni tanto, può salire anche da Sud, almeno quella dei cuori sportivi      

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