La crisi di governo aperta da Matteo Salvini pochi giorni prima di ferragosto si è risolta in un boomerang per il suo stesso fautore. L’8 agosto i senatori della Lega hanno presentato una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e alcune ore dopo, in una piazza di Pescara, Salvini, capo politico del partito nonché ministro dell’Interno e vicepremier, ha tenuto un discorso in cui ha chiesto “pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo senza rallentamenti e senza palle al piede”. Quella stessa sera Conte ha accusato senza mezzi termini Salvini di aver fatto cadere il governo per capitalizzare il consenso elettorale raggiunto alle elezioni europee e gli ha intimato di giustificare in parlamento la sua decisione. È stato il primo discorso veramente politico di Giuseppe Conte. Con quel discorso il premier ha preso le distanze da Matteo Salvini cominciando a splendere di luce propria.

Ma la vera resa dei conti ha avuto luogo nella seduta parlamentare del 20 agosto. Raramente si sono sentite parole più dure nei confronti di una singola persona, peraltro facente parte della stessa coalizione di governo: “irresponsabilità, scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale” solo per citarne alcune. Al termine della seduta Conte si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato. Sergio Mattarella ha subito iniziato le consultazioni. M5S e PD si sono detti disposti a far nascere una nuova coalizione di governo e il PD ha accettato di avere nuovamente Giuseppe Conte a capo del governo. Il 29 agosto Mattarella ha conferito a Conte l’incarico di formare un nuovo governo, incarico che il professore ha accettato con riserva.

Fin qui i fatti nel momento in cui scriviamo. Ai quali aggiungiamo alcune considerazioni, commenti e punti di domanda.

Una prima considerazione riguarda il nascituro governo e il suo capo. Il governo Conte bis (o Conte 2, come presumibilmente verrà chiamato) nasce dalla volontà di correggere gli errori del Conte 1 e dare inizio ad una fase migliore, più stabile e costruttiva. Il cosiddetto governo del cambiamento nato con le elezioni di marzo 2018 era basato su un contratto dato dalla somma algebrica dei programmi di Lega e M5S. Programmi così diversi dall’essere persino in contrasto tra loro. Ciò ha causato innumerevoli scontri bloccando l’azione di governo. A fare da paciere è stato Giuseppe Conte chiamato spesso a dare rassicurazioni sulla tenuta del governo. Ciò gli ha procurato le critiche dei partiti di opposizione, ma anche di osservatori politici e della stampa, che gli hanno rimproverato di non poter adempiere compiutamente al mandato stabilito dall’art. 95 della Costituzione (quello di promotore e coordinatore dell’azione di governo) non essendo capo di alcun partito politico. La crisi innescata da Salvini ha tuttavia finito col mettere in evidenza le qualità del premier che ha dimostrato, anche alla luce dell’esperienza maturata in questi mesi di governo, di possedere equilibro e senso di responsabilità. A ciò va aggiunto il consenso riscosso sulla scena internazionale e, non da ultimo, nella società civile. Vedremo presto se tutto ciò contribuirà a dare a Giuseppe Conte la piena legittimità politica che gli è mancata nel primo mandato. Le molteplici questioni di cui dovrà occuparsi il governo renderanno il suo ruolo particolarmente arduo.

Una seconda considerazione riguarda il M5S, partito di maggioranza relativa, i suoi elettori e la possibilità che grazie alla convivenza col PD abbia luogo un processo di assimilazione che produca la trasformazione del M5S da movimento populista anti-sistema, fondato sulla democrazia diretta, a partito progressista ispirato alla democrazia rappresentativa. La trasformazione potrà accadere solo se la convivenza tra M5S e PD produrrà buoni risultati. Ma non mancano aspetti problematici. Uno di essi riguarda proprio i meccanismi della democrazia diretta e l’uso della cosiddetta piattaforma Rousseau (con tutti i limiti, i dubbi e le contraddizioni sulla sua legittimità) da parte degli iscritti. Il numero di questi non supera le 100.000 unità. Troppo poco per condizionare le scelte di un movimento che il 4 marzo 2018 ha ottenuto il voto di oltre 10 milioni di italiani. Vedremo presto se e come la piattaforma influenzerà le trattative in corso tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti.

Una terza considerazione riguarda il PD e le sue vicissitudini interne a partire dalla sconfitta del 4 marzo 2018. Dopo le elezioni un tentativo di accordo tra M5S e PD fallì prima che se ne potesse verificare la fattibilità. Il responsabile del fallimento fu Matteo Renzi che in una intervista televisiva escluse ogni possibilità di accordo con i pentastellati. Così facendo Renzi scavalcò Maurizio Martina, segretario reggente del PD, che aveva invece dato segnali di apertura alla trattativa con i pentastellati. L’intervista di Renzi scatenò critiche sia all’esterno che all’interno del partito. Sedici mesi dopo quell’intervista Matteo Renzi continua ad essere azionista di maggioranza del PD e il 20 agosto è stato lui e non Zingaretti ad intervenire in Senato dopo il discorso di Conte. Stavolta però ha detto sì a un accordo con i 5 Stelle giustificandolo con la necessità di evitare l’aumento dell’IVA al 25% e il rischio dell’esercizio provvisorio del governo. Ma il vero scopo di Renzi è quello di evitare elezioni anticipate e soprattutto l’eventualità che Salvini le vinca. Se Renzi avesse colto questo pericolo già un anno e mezzo fa probabilmente non avrebbe intralciato la formazione di un governo giallorosso e avrebbe risparmiato al paese il clima di odio e intolleranza seminati a piene mani dal ministro Salvini.

La quarta ed ultima considerazione riguarda proprio Salvini. Nel mese di agosto ha sbagliato tutto. Ora accusa il M5S e il PD di volersi spartire le poltrone. Detto da uno che voleva “pieni poteri” l’accusa risulta poco credibile e suscita pacati sorrisi. L’Italia, scampata dal rischio di un ritorno al passato, se ne rallegra.

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