Nella foto: Momenti della serata con la Chicago Symphony Orchestra Riccardo Muti_c_Todd Rosenberg Photography_Chicago Symphony Orchestra

Riccardo Muti in tournée a Francoforte

Sull’arte del dirigere

Molti dei più grandi compositori furono pure grandi direttori d’orchestra: Mendelssohn, Wagner, Mahler ad esempio; Wagner è stato il primo a scrivere un intero saggio Über das Dirigieren (1869). Ma ci sono anche dei controesempi notevolissimi: Robert Schumann, uno dei massimi esponenti del romanticismo tedesco, era però incapace di condurre un’orchestra. Il suo amico Mendelssohn tentò invano di farglielo capire, lui si offese, lo accusò d’invidiarlo, ed accettò l’incarico di direttore dell’orchestra sinfonica comunale di Düsseldorf. Così la catastrofe avvenne: dopo tre anni di disservizio, polemiche e proteste del pubblico e dell’orchestra, fu sollevato dall’incarico e poco dopo tentò il suicidio gettandosi nel Reno. Anche il timido e riservato Ciaikowsky non era tanto portato, ma lui ne era consapevole, prendendo in mano la bacchetta solo in poche occasioni per dirigere le proprie composizioni. Perfino Beethoven non brillava, stando alle testimonianze dei suoi contemporanei: pare che sul podio si comportasse in maniera quasi solipsistica, davanti allo smarrimento degli orchestrali che non sapevano come interpretare il suo gesticolare.

Dunque non basta essere un grandissimo musicista per saper dirigere bene l’orchestra, occorre qualche dote in più. L’Italia si può considerare uno dei paesi più fortunati in questo campo, avendo dato al mondo una serie di grandi direttori d’orchestra; tanto per citare Toscanini, Gavazzeni, Giulini, Maderna, Abbado, Sinopoli, e per non dimenticare i meno fortunati Ferrara e Cantelli.

L’ultimo sopravvissuto di questo poker d’assi è Riccardo Muti. Pugliese, napoletano di nascita ma cresciuto nella bianco-azzurra città di Molfetta, ha compiuto i suoi studi musicali al conservatorio di San Pietro a Maiella a Napoli, diplomandosi poi in composizione e direzione d’orchestra presso il conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. E poi, ventiseienne, vinse all’unanimità il premio Cantelli, e due anni dopo Karajan lo chiamò al festival di Salsburgo. Da quel momento decollò in una carriera entusiasmante, centrata sul repertorio operistico italiano: fra l’altro Muti è stato il più longevo direttore d’orchestra stabile della Scala, Ma poi, progressivamente si è allargato al repertorio internazionale, come il „Parsifal“ e il „Crepuscolo degli Déi“ di Wagner. Dal teatro lirico alle sale da concerto, Muti ha diretto tutte le più famose orchestre sinfoniche, conservando una predilezione per la Filarmonica di Vienna da cui ricevette in dono l’anello d’oro, un riconoscimento concesso solo a pochissimi musicisti selezionati. È stato pure nominato direttore stabile della Philharmonia di Londra come successore del leggendario Otto Klemperer, e poi della Philadelphia Orchestra. Il suo ultimo incarico è stato alla guida della grande Chicago Symphony Orchestra dal 2010 al 2023, e con essa ha intrapreso un ultima tournée che ha toccato anche Francoforte. All’età di 82 anni suonati, il Nostro dimostra molta più scioltezza a muoversi di Biden. A questo concerto era presente il console generale di Francoforte Massimo Darchini con la viceconsole Silvia Biondi.

Inoltre segnaliamo il sito internet „Riccardo Muti music“ che offre moltissimo materiale interessante per chi desidera incrementare la sua cultura musicale.

Nella foto: Momenti della serata con la Chicago Symphony Orchestra Riccardo Muti_c_Todd Rosenberg Photography_Chicago Symphony Orchestra

Musica = Architettura

Il programma del concerto era dedicato all’Italia, e più precisamente a pezzi di musica sull’Italia composti da autori non italiani. In apertura c’era il nuovissimo The Trumph of the Octagon composto da Philip Glass nel 2023 su commissione della stessa Chicago Symphony Orchestra. La storia che c’è dietro è la seguente: fin da bambino Riccardo Muti aveva ammirato di persona la bellezza di Castel del Monte, che gli era parsa come una gigantesca corona piovuta dal cielo, e ne teneva una foto appesa nel suo studio a Chicago. Un giorno Philip Glass gli fece visita e ne rimase colpito. Allora Muti gli spiegò tutte le nascoste relazioni geometriche, matematiche ed astronomiche dello strano oggetto architettonico. Ed anche la musica risponde a precise relazioni matematiche ed a proporzioni costruttive, tanto che il filosofo Schelling ha definito l’architettura come „musica solidificata“.

Philip Glass è un esponente molto importante della cosiddetta Minimal Music, cioè un’indirizzo della musica classica americana nata negli anni ‘60 che in molti aspetti è diametralmente contrapposto alla musica seriale delle avanguardie europee che imperversavano negli anni ‘50. Essa è basata su pattern, su cellule motiviche semplici e ripetitive e su un’armonia elementare e priva di dissonanze di cui erano invece avidi i compositori dell’avanguardia. Anche i contrasti dinamici sono ridotti al minimo. La musica si sviluppa quindi come un flusso continuo che procede su piccoli cambiamenti percepibili come la sostituzione di una nota del pattern o un semplice passaggio armonico; e così facendo riesce a includere molta musica etnica africana, melanesiana, ecc. Nel nostro caso, The Triumph of the Octagon si è rivelato un pezzo per grande orchesta d’archi della durata di circa 10 minuti che all’inizio richiamava un po’ „Il lago incantato“ di Liadov, in altri punti il preludio dell’“Oro del Reno“ di Wagner.

Due viaggiatori in Italia

Il secondo pezzo in programma era la celeberrima sinfonia in La maggiore di Mendelssohn, detta „Italiana“. Rampollo di una ricchissima famiglia di banchieri, Felix Mendellsohn-Bartholdi poteva permettersi molti viaggi fin da giovane, in special modo uno in Scozia e l’altro in Italia, riportandone composizioni rimaste punti fissi del repertorio classico. La Scozia gli inspirò la sua bellissima terza sinfonia, detta appunto „Scozzese“, oltre alla stupenda „Ouverture delle Ebridi“ che è un esempio perfetto dell’atmosfera romantica più fosca e misteriosa. Al contrario, la quarta sinfonia spicca il volo in un’atmosfera limpida e luminosa, con uno slancio ripetuto degli archi verso il cielo azzurro. Ma quello che più collega all’Italia questa sinfonia è il suo perfetto senso delle proporzioni, paragonabili a quelle di un edificio rinascimentale. Impressionante la scioltezza dinamica di cui ha dato prova la Chicago Symphony Orchestra, senz’altro paragonabile ai Berliner Philharmoniker degli anni migliori.

La seconda parte del concerto era interamente occupata da una composizione giovanile di Richard Strauss -lo Strauss bavarese- intitolata Aus Italien che è in quattro tempi come una sinfonia, però non è una sinfonia. È più simile a una fantasia, in cui si susseguono episodi musicali sempre cangianti e dove è arduo trovare un filo conduttore. Mario Bortolotto li qualifica come „L’inesausta oltranza delle idee, numerosissime e incompatibili„ nel suo libro „La serpe in seno“ dedicato a Strauss. L’orchestrazione è molto sontuosa, come si addice a un tipico pezzo tardo-romantico, e ciò ha dato la possibilità alla Chicago Symphony Orchestra di mostrare in pieno tutta la sua versatilità, sia nel far risaltare che nello smorzare i suoni. Per fare un esempio, l’accompagnamento dell’arpa che forma „un fondo continuo vizzo e sgradevolissimo“ (sempre Bortolotto) viene attutito e tenuto in secondo piano dalla concertazione di Muti e non risalta più dei violoncelli. A un certo punto ti sembra stia emergendo un fugato su „funiculì funiculà“ che però non è un vero fugato; la canzonetta di Luigi Denza però è proprio quella, e ciò porterà a Strauss problemi legali per i diritti d’autore.

„Dal finale si evince che Strauss è stato a Napoli subito dopo il colera“ commentò malignamente il pianista Joseph Giehrl dopo averlo ascoltato, come riporta Guido Zaccagnini nella sua „Storia dilettevole della musica“. In realtà Aus Italien fu composto nel 1886, anno in cui Strauss fece il suo primo viaggio in Italia soggiornando, non sempre felicemente, a Roma e a Napoli, e nella sua suddivisione in quattro parti intitolate rispettivamente „Nella campagna“, „Tra le rovine di Roma“, „Sulla spiaggia di Sorrento“, e „Vita popolare a Napoli“, precorre di una trentina d’anni i famosi poemi sinfonici di Respighi.

Nel bis il maestro ha voluto ribadire la sua missione di massimo direttore verdiano vivente eseguendo la poco conosciuta sinfonia dell’opera Giovanna d’Arco. Davanti agli applausi frenetici del pubblico francofortese si è rifiutato di salire sul podio, e li ha accolti in mezzo ai suoi orchestrali, come un primus inter pares.