Nella foto: First movements in the city, (2021) olio su pioppo.

MOSTRE – La pittrice salentina Francesca Mele in esposizione a Münster e a Rheine

In quella grigia e piovosa domenica di febbraio (il 20) non volevo perdermi la l’occasione di vedere le opere di Francesca Mele, esposte nella prestigiosa accademia cattolica Franz Hitze Haus e di incontrare l’artista. Avevo visto alcune sue opere in un articolo, mi avevamo colpito molto per la loro forza espressiva. Ho fatto allora una levataccia, tra andata e ritorno ho cambiato cinque treni, ho impiegato quasi otto ore di viaggio, soffiava un vento gelido, residuo delle raffiche di uragani che avevano imperversato i giorni precedenti.

“Le tele di Francesca Mele sono più tracce e metafore che simboli, più cifre di un’assenza che rappresentanti di una pienezza”, ripensavo alle parole di P. Elmar Salmann, sacerdote benedettino, teologo ed emerito professore presso l’università pontificia Sant’Anselmo, scritte nel contributo per il catalogo “Written in Water” delle due mostre di Francesca Mele, a Rheine e a Münster, che resteranno aperte fino a fine di maggio.

Arrivata, vedo prima i suoi dipinti: palazzi che si riflettono sull’acqua, città che le persone non sembrano abitare, architetture, forme vibranti che interrogano chi le guarda; e poi incontro Francesca Mele e Christoph Hegge, che ha curato la mostra.

Nella foto: Francesca Mele

Francesca Mele, vive e lavora in Salento, la luce mediterranea, dice, entra senza barriere dalle grandi vetrate del suo atelier. Si cercherebbe invano di riconoscere qualcosa della sua terra nelle sue opere: “Fin da bambina quando dipingevo, mi dicevano ‘ma sei stata in Germania?, sei stata Oltralpe”, perché mentre molti dipingevano il Salento, gli ulivi, io dipingevo alberi lunghi (esposti nella mostra a Rheine “L’invisibile della natura”), paesaggi nordici. Eppure non posso fare a meno della luce della mia terra tanto che quando vivevo a Parigi, tornavo regolarmente nella mia casa in Salento per poter dipingere. A Parigi non riuscivo a farlo, dovevo rientrare nei miei habitat e dopo due giorni di contemplazione di meditazione, scrittura, a fatica ricominciavo a dipingere”.

Francesca Mele ha alle spalle più di 120 mostre personali, molte delle quali all’estero, America, Parigi, Bruxelles, Tokio, oltre che tante in Italia e poi collaborazioni con il teatro e con musicisti. A portarla in Germania è stato Christoph Hegge, vescovo ausiliare di Münster e copresidente della commissione scienza e cultura della Conferenza episcopale tedesca. L’ha conosciuta cinque anni fa quando si trovava in Puglia; vide in un libro la stampa di una sua opera, una figura donna-angelo dallo sguardo interrogante con un’ala in luce e una in ombra, sinistra. Volle conoscere l’artista. “Guardando queste opere d’arte si entra in un dialogo profondo con esse”, racconta Hegge, “mi colpì lo sguardo penetrante di quella figura, che cercava qualcosa, che sperava nel futuro, vedevo tutto questo. In un’opera d’arte di Francesca Mele si entra con l’anima e si dischiude un mondo, dietro quello che si vede all’apparenza. È la profondità che riesce a esprimere con le sue opere”.

La qualità pittorica e artistica non è sfuggita agli addetti ai lavori. Nel dicembre 2021 la casa editrice Mondadori nel “Catalogo dell’arte Moderna. 57” ha inserito Francesca Mele tra gli artisti contemporanei più importanti. Le sue opere si muovono sulla soglia fra visibile e invisibile, due mondi che sono in contatto: “La nostra anima ci dà il punto d’appoggio per conoscere il confine che mette in contatto questi due mondi”, dice lei davanti al pubblico curioso e ricettivo della matinée, mentre Christoph Hegge, che conosce molto bene la lingua italiana, traduce in tedesco. Una giovane donna fra il pubblico osserva che la solitudine delle figure di Francesca Mele è una chiave per la trascendenza a cui richiamano le opere. Se si vuole trovare un comune denominatore, questo, è il luogo interiore, il luogo del desiderio che diviene arte. La giovane pianista Iva Zurbo completa con grande maestria e talento una mattinata, che è stata un incontro intenso fra l’artista e il pubblico, fra l’arte e il suo senso.

C’è una religiosità forte nelle opere. La si ritrova nella mostra di Münster “Visioni e incantamenti” e in quella di Rheine “L’invisibile della natura”. “È l’anima dentro le cose”, dice Francesca Mele. Visioni appena percepite che creano un’ansia di mistero, di fascino. Il rosso dei melograni esplode mentre tutt’intorno è indefinito. Lì, puntano gli occhi, su quei frutti che si impongono per la loro bellezza e per la loro transitorietà. E poi pietre di palazzi che si sgretolano e si risolvono nell’acqua, riflesso di ciò che erano. Scrive Christoph Hegge, curatore anche del catalogo: “Written in Water” mira a far risuonare le dimensioni profonde, i regni metafisici della nostra percezione. Un dialogo tra uomo, architettura e natura che attraverso mezzi stilistici del Surrealismo e in parte del cubismo mette in discussione l’essere umano rispetto alla sua ragione significante”.

Nella foto: Melagrane, olio volume e cartariso

Guardo con Francesca Mele i suoi dipinti in esposizione e mi mostra un trittico con un irreale palazzo con il marchio delle due C: “Volevo prendere un simbolo e a me piacevano questi che sembrano due cerchi che si staccano. Ho preso questo ipotetico palazzo e in una notte parigina gli ho fatto prendere fuoco. Il secondo è più spettrale, è rimasto ben poco dopo l’incendio; nel terzo c’è un’aria mattutina carica di attese, è la ricostruzione… Qui c’è inveceun pezzo della mia Lecce con la facciata di Santa Croce, poi c’è una ‘vera Venezia’, poi ci sono molte città e architetture inventate e mi piace questo gioco sull’acqua, le specchiature che danno un senso di continuità ma anche della precarietà, come mi sento pure io”.

Francesca Mele racconta poi che fa tutto lei, anche il supporto pittorico. Ama usare tele di canapa, quelle che contengono il caffè, le cuce e ci stende sopra il colore. Talvolta lascia affiorare la trama della tela fino a lasciar intravedere la scritta dei sacchi di caffè originari, in un gioco di rimandi, di tracce. Quando deve tracciare le linee svettanti dei grattacieli ha bisogno di un supporto ligneo e allora prepara le tavole di pioppo su cui stende colore e carta riso. L’abilità artigianale di preparare il supporto per la pittura è l’eredità che ha raccolto dal Seicento come invece dalle figure femminili, quasi dei ritratti, riecheggia l’eco del Rinascimento. L’opera di Francesca Mele ci accompagna sul limitare fra visibile e invisibile per farci cogliere ciò la ragione pensante non può dire. È questo il significato e l’importanza dell’arte in ogni suo linguaggio. Sui treni che mi riportano a casa leggo le parole di Elmar Salmann:

“Visioni e riflessi, forse l’arte, la pittura, la musica sapranno esprimere e trasportare intuizioni che la parola umana, le predicazioni, le dichiarazioni esplicite tendono a soffocare. Le tele di questa mostra sono, invece, in cerca di un occhio, di un cuore, e di una intelligenza che saprebbero ac-cogliere il fascino e l’incantamento che emanano, la loro magia e lo svolazzare di uno Spirito che le attraversa e che vorrebbe essere fonte di ispirazioni e di co-spirazione per noi mortali che viviamo tra cieli e mari inenarrabili e tra le rovine e le promesse di una storia indicibile.”

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