Un libro a cura dell’italianista Cornelia Klettke indaga il rapporto tra il drammaturgo siciliano e la cultura tedesca

Correva l’anno 1928 quando Luigi Pirandello decise di lasciare l’Italia e trasferirsi a Berlino. Non era la sua prima esperienza tedesca: quarant’anni prima, da giovane studente universitario, era stato un lungo periodo a Bonn, dove era approdato grazie a una borsa di studio su sollecitazione del suo maestro di filologia romanza, Ernesto Monaci. Presso quell’ateneo si era laureato nel marzo 1891 in dialettologia italiana con una dissertazione (scritta in tedesco) sulla fonetica e la morfologia della parlata di Girgenti, la città dov’era nato. Quel soggiorno giovanile gli aveva consentito di familiarizzare con la lingua tedesca e aveva fatto nascere una legame fecondo con la letteratura e la filosofia di quel paese. Il Pirandello che si recò a Berlino verso la fine degli anni Venti era ormai un affermato scrittore e drammaturgo e l’espatrio fu una precisa scelta dettata da motivazioni politico-esistenziali. Era risentito con l’Italia per l’incomprensione e l’avversione ai suoi progetti di rinascita del teatro, ed era del tutto sfiduciato nei confronti del fascismo e di Mussolini. Una disaffezione che non si esaurì neppure quando due anni dopo, nel 1930, venne nominato “accademico d’Italia”.

Durante il suo “esilio” Pirandello ebbe modo non solo di frequentare le sale teatrali e cinematografiche della capitale tedesca, ma anche di conoscere personalmente grandi registi dell’epoca quali Max Reinhardt e Erwin Piscator che senza dubbio ebbero un’influenza sulla sua produzione successiva. Intrecciò inoltre rapporti con editori, traduttori, impresari e registi, soprattutto allo scopo di realizzare un film tratto dal dramma Sei personaggi in cerca d’autore. A Pirandello il cinema pareva una minaccia per l’avvenire del teatro, ma al tempo stesso era consapevole della crescita irreversibile che avrebbe avuto e per questo era fermamente intenzionato a servirsene, specialmente dopo che nel 1925 il regista Marcel L’Herbier aveva portato sullo schermo Il fu Mattia Pascal.

Nella Berlino di quegli anni lo scrittore siciliano si sentiva a proprio agio. Abitava in un appartamento insieme alle sorelle Abba, cenava regolarmente al ristorante italiano “Aida”, e frequentava i migliori caffé e i cabaret del centro. La giovane capitale della Repubblica di Weimar, era una città inquieta e seducente, che attirava artisti di ogni nazione. È la città raccontata da Alfred Döblin nel romanzo Berlin Alexanderplatz e da Walter Ruttmann nel film Berlin – Die Symphonie der Großstadt. Una calamita anche per molti intellettuali italiani. Nel periodo di Pirandello viveva a Berlino anche Corrado Alvaro, che ci lavorava quale corrispondente della «Stampa» e di altri giornali. E ci vivevano pure Giuseppe Antonio Borgese, il giornalista e scrittore Pietro Solari, il narratore e drammaturgo Pier Maria Rosso di San Secondo. Come risulta dalle loro lettere e dai diari la capitale tedesca appariva come un grande crocevia di culture capace di coniugare modernità e tolleranza come non era immaginabile altrove. E nessuno di loro avvertiva nell’aria lo spettro della dittatura razzista che di lì a poco avrebbe preso forma concreta.

L’opera più importante scritta da Pirandello durante il soggiorno berlinese fu Questa sera si recita a soggetto. La prima ebbe luogo il 25 gennaio 1930 a Königsberg, il paese di Immanuel Kant, seicento chilometri a est di Berlino. Fu un grande successo di pubblico e di critica che però non si ripeté in maggio al Lessing Theater di Berlino. Anzi, lo spettacolo andò male, ci furono vivaci contestazioni, forse organizzate da Hans Feist, il traduttore tedesco delle sue opere con cui Pirandello aveva platealmente rotto ogni rapporto. Quel fiasco amareggiò moltissimo il drammaturgo siciliano e fu uno dei principali motivi che lo indussero a lasciare Berlino. Nel giugno del 1930 era di nuovo a Roma, da dove tuttavia riprese presto la strada per l’estero questa volta per Parigi.

A Berlino Pirandello tornò nuovamente nel settembre del 1936, in pieno regime nazista, ma solo per pochi giorni in occasione di un congresso di autori ed editori. La città gli parve molto cambiata, quasi spenta. La diaspora degli intellettuali ebrei aveva smorzato la vivacità della scena culturale. E perfino i drammi di Pirandello non venivano più rappresentati in quanto le traduzioni correnti erano state curate da un ebreo. Il drammaturgo scoprì che per tornare nel cartellone dei teatri tedeschi c’era bisogno di una nuova traduzione curata da un ariano e di un’autorizzazione dall’alto. «Qua ci vuole l’autorizzazione per tutto – scrisse in un lettera a Marta Abba – e per tal riguardo si sta molto peggio che da noi». La Berlino che lo aveva accolto nel 1928 non esisteva più.

Un recente volume, curato da Cornelia Klettke, docente di filologia romanza all’università di Potsdam, uscito col titolo La Germania di Pirandello tra sogno e realtà presso l’editore Frank & Timme, raccoglie una serie di contributi che mettono a fuoco vari aspetti del rapporto tra il drammaturgo siciliano e la realtà tedesca. Si approfondiscono i temi biografici e topografici relativi alla presenza ‘fisica’ di Pirandello in città tedesche; si studiano gli influssi di Schiller, Goethe, Nietzsche e altri intellettuali tedeschi sulla sua concezione drammaturgica ed esistenziale; si analizza l’influenza che Pirandello ha esercitato sul teatro tedesco del Novecento. Tra i saggi più interessanti che si leggono nel volume (risultato da un convegno del 2017 in occasione del 150esimo anniversario della nascita di Pirandello) si segnala quello della stessa Cornelia Klettke sulle “case di Pirandello a Berlino”: attraverso una circostanziata disanima delle lettere indirizzate a Marta Abba e sulla base di approfondite ricerche topografiche la studiosa ricostruisce i luoghi pirandelliani di Berlino correggendo una diffusa prospettiva bohémien secondo la quale lo scrittore di Agrigento avrebbe vissuto nella capitale tedesca in squallidi appartamenti in subaffitto.

Chiude il libro una chicca letteraria di Franco Sepe, docente e scrittore italo-berlinese, il quale inventa un monologo di Jenny Schulz-Lander, la ragazza che Luigi aveva amato ai tempi di Bonn e che poi era emigrata con la famiglia negli Stati Uniti. Siamo nel 1934 e Pirandello ha appena ricevuto il premio Nobel. Jenny, oramai quasi settantenne, vorrebbe rivederlo e immagina la scena dell’incontro. Un incontro che tuttavia non ebbe mai luogo, giacché Pirandello preferì conservare il ricordo della giovane Jenny che aveva conosciuto ai tempi di Bonn.

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