Nella foto: Venezia. Foto di ©Daniele Messina

Goethe a Venezia nell’autunno del 1786

“Era scritto nel libro del destino che l’anno 1786, la sera del 28 settembre, alle cinque, avrei visto per la prima volta Venezia, entrando dalla Brenta nelle Lagune e che poco dopo avrei toccato questo suolo e visitata questa meravigliosa città di isole”.

L’aveva sognato da tanto quel momento, da quando bambino si trastullava col “grazioso modello di gondola” che il padre gli aveva portato, come prezioso regalo, dal suo viaggio in Italia. Giunge in città “scendendo col burchiello lungo il bel fiume” e lasciandosi dietro “dei magnifici giardini, dei palazzi splendidi, paeselli pieni di vita e di ogni ben di Dio” e passando dalla riviera del Brenta, la porta più degna e prestigiosa per accedere a Venezia.

Si sistema nell’albergo “Regina d’Inghilterra”, poco lontano da piazza San Marco, in una posizione strategica, che gli fa pregustare, da “perfetto ignoto”, quella solitudine “sospirata così spesso”.

L’ebbrezza di essere solo tra la folla

Questo il suo programma: “Resterò qui finché non mi sarò saziato dello spettacolo di questa città, libero di perdermi nei suoi labirinti”, senza guida,“consultando soltanto l’orizzonte”. Quanto alle note di diario, poiché “di Venezia già si è detto e si è stampato tanto”, si sarebbe limitato ad esporre solo le sue impressioni, rinunciando ad una descrizione minuta e piuttosto scontata”.

Il suo primo divertimento è “passeggiare su e giù, fra l’acqua, le chiese ed i palazzi, lungo quegli argini di pietra e quei marciapiedi ben lastricati, pieni di vita e di gaiezza” per poi salire sul campanile di San Marco, “di dove si offre allo sguardo il grandioso spettacolo del mare”.

“E mi credevo già padrone del mar Adriatico”

Ma, per “una più intima conoscenza di Venezia”, sente l’esigenza di un giro mirato in gondola: “Attraversai tutta la parte a nord del Canal Grande. Girai intorno alle isole di Santa Chiara fino alle lagune, di qui entrai per il canale della Giudecca fin verso la piazza di San Marco e mi credevo già padrone del mare Adriatico”. Ne resta estasiato: “Tutto ciò che mi circonda è pieno di nobiltà, è l’opera grandiosa di forze umane riunite, è un monumento maestoso non di un solo principe ma di tutto un popolo”. Nonostante l’inevitabile decadenza: “Se la signoria di Venezia è decaduta, tuttavia questa Repubblica, col suo carattere e con le sue istituzioni, non sembrerà men degna di rispetto”.

L’ammirazione per la città gli rende inaccettabile “la grande sporcizia delle vie”, dovuta al comportamento “imperdonabile” della gente, che “butta le immondizie negli angoli e nei canali”, senza ordine né regolamento né timore di sanzioni, mentre “i bravi architetti di un tempo” avevano procurato strade selciate e marciapiedi di mattoni perché la città potesse essere tenuta pulita. “A Venezia, se chi comanda volesse, si potrebbe far tutto”.

Nella foto: Venezia, Chioggia. Foto di ©Daniele Messina

Il divino Palladio, “mai visto una cosa più sublime e perfetta”

Ma è il disappunto di un momento, perché le opere d’arte lo appagano totalmente. È attratto in particolare dalle opere dell’architetto Palladio, che aveva potuto studiare nei suoi “Quattro libri” pubblicati a Venezia (1570). “Mi sono affrettato innanzitutto alla Carità”, dove l’architetto vicentino aveva progettato un convento per i Canonici Lateranensi, “il cui disegno mi era piaciuto immensamente”. Ma di compiuto si trova la decima parte dell’edificio, la sacrestia della chiesa, modellata come un “tablino” di un’antica casa romana, la scala ovata, “la più bella scala a chiocciola del mondo” e la grande parete del chiostro a tre ordini di colonne sovrapposti. Anche se incompiuta, e sarebbe stata “un colpo d’occhio di paradiso”, l’opera “è degna del suo genio divino”, ispirato dai suoi studi sulla casa romana e sulle terme. “Mi sembra di non aver mai visto cosa più sublime e perfetta”, conclude Goethe riferendosi anche al disegno, “e non credo d’ingannarmi”.

Trova conferma delle sue convinzioni nella contemplazione della Chiesa del Redentore, un’altra “grandiosa” opera del Palladio, degna della più grande ammirazione, in cui, “sentendo l’angustia e la meschinità del suo tempo, l’architetto tenta di ravvicinare le costruzioni severe delle chiese cristiane all’antica forma del tempio”.

Liberato dal ciarpame delle decorazioni gotiche e dei cieli grigi del nord!

Meritano tutta la sua meraviglia le copie delle migliori sculture antiche che ammira a Ca’ Farsetti, “opere delle quali il mondo può trarre diletto ed ammaestramento per secoli e secoli”. Tanta è la sua ammirazione che, di fronte ad un frammento dell’impalcatura del tempio di Antonino e Faustina a Roma, prorompe in una sprezzante condanna di certi esiti dell’arte gotica: “Ben altra cosa che i nostri smorfiosi santi delle decorazioni gotiche, accovacciati l’uno a ridosso dell’altro sulle loro mensole; ben altro che le nostre colonne simili a cannucce di pipa, le nostre torricelle a punta e le guglie a fiorami: di tutto questo ciarpame, grazie agli dei, ora mi sento liberato per sempre”.

E continua con i confronti. Di fronte ad uno splendido dipinto del Veronese (“La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro” a palazzo Pisani Moretta), contemplando l’impasto dei colori, “la sapiente distribuzione dei chiaroscuri” e il delizioso effetto armonico che ne deriva, gli viene spontanea una singolare riflessione: “Noi settentrionali, che passiamo la vita in un paese monotono, brutto ora di fango ora di polvere, noi che viviamo in ambienti ristretti, non possiamo rappresentarci nei nostri paesi uno spettacolo così letificante, come le lagune in pieno sfolgorio di sole, i gondolieri nei loro costumi variopinti sopra lo specchio verde chiaro dell’acqua, nello sfondo azzurro cupo dell’aria. E Tiziano e Paolo Veronese possedevano il segreto di questa luminosità in grado sommo”.

“È qui che la musica ed il teatro trovano veramente il loro campo!”

In un ambiente simile è naturale che fioriscano le arti. E Goethe non si lascia sfuggire le occasioni di goderne. Per assistere al “Saul”, un oratorio musicale di Händel, alla Chiesa dei Mendicanti, si spinge in uno dei più intricati labirinti. ”La chiesa era piena di uditori; la musica bellissima, le voci stupende. Di una voce come quella del contralto non avevo ancora l’idea. Alcuni brani musicali erano d’un’infinita bellezza”. Anche se al suo spirito critico disturba “quel maledetto direttore d’orchestra che batte il tempo con un rotolo di carta contro la grata, per attrarre su di sé l’attenzione del pubblico”.

Questo vezzo di “dar nell’occhio” lo trova anche in uno spettacolo d’opera al San Moisè, in cui “le protagoniste, due simpatiche e graziose figure dalla bella voce, han fatto del loro meglio per piacere”. Come pure le ballerine, “molto applaudite, anche perché si son fatte un dovere di mettere in mostra tutte le loro attrattive più intime”.

Ma è a teatro che Goethe trova il suo massimo divertimento. Una sera al San Luca assiste ad uno “spettacolo estemporaneo” di maschere della commedia dell’arte: “Non ho mai visto degli attori rappresentare la loro parte con maggior naturalezza, né il pubblico divertirsi tanto, per più di tre ore”, in una fusione incredibile. Perché a teatro gli spettatori vedono la stessa vita della loro giornata, personaggi reali, pieni di vita, che vociano, giurano, gesticolano, cantano, giocano, bestemmiano.

Massimo interprete di quel mondo è il Goldoni delle “Baruffe chiozzotte”, per Goethe “Rauf und Schreihändel” a Chioggia. Assiste allo spettacolo, sempre al San Luca, “con immenso piacere”, anche perché si era recato a Chioggia proprio il giorno prima: “I chiassi della gente, i pettegolezzi, la vivacità, la volgarità, l’arguzia, il buon umore, la libertà dei modi, tutto è rappresentato in modo da incantare. Non ho mai assistito in vita mia ad un’esplosione di giubilo come quella cui si è abbandonato il pubblico al vedersi riprodotto con tanta naturalezza. È stato un continuo ridere di pazza gioia dal principio alla fine. Gran lode all’autore, che da un nonnulla ha saputo ricavare il divertimento più gustoso, ciò che non può riuscire che ad un artista”.

Ed appunto, conservando ancora “l’entusiasmo per quella rappresentazione popolare”, Goethe si congeda da Venezia, “con lieto animo”, il 14 ottobre, grato agli dei perché gli fanno provare “come tutto gli ritorni caro quello che gli era stato caro nella giovinezza”.

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