Nella foto: Deserto, foto simbolica. Foto di ©Pexels su Pixabay

In un tempo difficile, dove alle fatiche del quotidiano si aggiungono l’inquietudine e l’orrore per una guerra vicina, le crisi sul piano internazionale, da quella energetica a quella climatica, il filosofo Michele Illiceto riflette sull’Avvento, come tempo di attesa che ci àncora al senso profondo della vita

Il periodo dell’Avvento ci prepara al Natale, non tanto festa sdolcinata ed edulcorata, ma, per chi crede, come un momento serio di verifica esistenziale sul proprio percorso di vita e di fede, sia personale che comunitario. Anzi direi planetario, perché in gioco, a Natale, non è tanto la veridicità di un racconto che può essere anche non creduto nel modo in cui siamo stati abituati, ma una proposta antropologica ed esistenziale – e non solo religiosa – che offre a ogni uomo la possibilità di entrare nel mistero più grande della propria vita: il venire di un Altro che fa dell’alterità la vera questione del nostro tempo.

Alterità e non alterazione o, peggio, alienazione. Alterità che esige da parte di ciascuno esposizione, accoglienza, ospitalità, apertura, riconoscimento, ridimensionamento del proprio io. Tutte categorie antropologiche e politiche che oggi possono aiutarci a riformulare le nostre identità e le nostre relazioni. Per rifare i singoli e le comunità. Per ricostruire in modo nuovo il tessuto umano che si sta sfilacciando.

Ma l’evento dell’alterità, che il Natale celebra, esige la messa in pratica di una categoria che oggi purtroppo è molto rara e fragile: l’attesa. Essa va intesa come il tempo dell’Altro, anzi il tempo “altro”, non pianificabile, non prevedibile. È il tempo che mi dice che l’altro (chiunque egli sia) non viene mai nel momento e nel modo in cui noi vorremmo. Saper aspettare è liberare il tempo da ogni forma di consumo, da ogni forma di possesso. Liberare il tempo da ogni forma di pretesa per aprirsi invece a quella della sorpresa.

Purtroppo, però, in una società “liquida”, anzi ancor peggio “gassosa”, come la nostra, dove tutti vogliono “tutto e subito”, dove si corre dietro alle cose solo per averle e consumarle, è difficile l’arte dell’attesa, ed è anche diventato difficile educare le nuove generazioni all’attesa. Siamo diventati compulsivi e prigionieri dell’istante come tempo totalizzante. Siamo tutti presi dell’ossessione dell’attimo.

Nessuno aspetta nessuno. Noi stessi non ci sentiamo più attesi. E se non sperimentiamo l’essere attesi da qualcuno, difficilmente ci metteremo in attesa di qualcuno. Forse per questo siamo un poco più tristi, come hanno ribadito i due psichiatri francesi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, che hanno definito la nostra una “epoca delle passioni tristi”. Don Tonino Bello, a riguardo, già negli anni Ottanta scriveva che “La vera tristezza non è quando, a sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio”.

Come ha scritto il poeta-filosofo francese Christian Bobin, “L’attesa è un fiore semplice. Germoglia sui bordi del tempo. È un fiore povero che guarisce tutti i mali. Il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione”. L’attesa è la forma temporale della libertà interiore ma anche di quella forza d’animo che ti espone al ritardo e al rifiuto. Al rimando di ciò che vorresti fosse subito tuo. Quando aspetti sai che ciò che arriverà non sarà mai totalmente tuo. Viene da Altrove, e va verso un Altrove di cui non sei padrone. Tu puoi solo lasciare che ti attraversi. Lasciarlo venire e lasciarlo andare.

L’attesa è la santità di chi sa restare accanto alla vita anche quando tutto pare si vada disfacendo. Quando la stessa vita sfugge a se medesima. Quando ti si erge contro e ti offre molti motivi per staccare la spina e farti finalmente dire “Basta”!

Massimo Recalcati, noto psicanalista lacaniano, in un suo libro definisce la madre (e quindi la donna) come una figura dell’attesa. Ma molti anni prima di Recalcati, don Tonino Bello ha definito Maria “donna dell’attesa” e con ciò ha voluto dire che la “santità di una persona si commisura dallo spessore delle sue attese”. Come accade alle vergini con le lampade accese (cfr. Mt 25.1-13), l’attesa ci rende sia oranti che operanti, pronti a “svegliare l’aurora” che dorme il sonno delle cose andate o semplicemente rimosse. Pronti, come dice il vescovo di Molfetta, a forzare l’alba a nascere con la forza della speranza e il fragile fremito della pazienza.

Ecco allora Maria, la quale come “donna dell’attesa”, rompe gli schemi del tempo usuale, prevedibile e monotono. Lei non si è accontentata delle evidenze credute. Non si è fossilizzata attenendosi al puro accaduto.

Messa in attesa da Dio, Maria ha messo in attesa Dio. E, con Dio, tutto l’uomo. Con lei Dio ha voluto dare forma al vuoto per risvegliare nel cuore di ciascuno la nostalgia che ce lo fa avvertire come ciò di cui veramente manchiamo.

Con la sua attesa Maria ci insegna a non sederci sulle cose avute, a non fermarci nella stazione delle mete raggiunte. Oggi nessuno si aspetta più niente. Tutto è pianificato, programmato, calcolato. Ma in queste cose non c’è spazio per l’attesa. Non vi è tempo per l’attesa perché il tempo è scomparso. È infatti l’attesa a dare importanza e peso al tempo.

Ecco allora il Natale. Colui che era prima del tempo viene nel tempo, per dare importanza al tempo, e a coloro che nel tempo sono in cammino. Non come monotona e ciclica ripetizione dell’identico, ma come un esporsi alla venuta di ciò che è sempre altro, di ciò che è sempre oltre. Ma l’altro e l’oltre vanno attesi andandoci incontro. E per farlo bisogna uscire dal proprio io, dalle proprie “patrie”, dai propri recinti e dalle proprie sicurezze.

A Natale il tempo e con esso la storia – la nostra storia – divennero una cosa seria. Da essa non si scappa, ma ci si immerge, per assumerla e tesserla, muovendosi – come diceva il filosofo Italo Mancini, molto caro alla nostra terra – tra il già e il non-ancora. Tra ciò che è stato e ciò che già ora sta nascendo anche se non ancora si vede.

Perché il Natale è l’elogio di ciò che sempre sta per nascere, soprattutto di ciò che nasce nel silenzio di tante periferie esistenziali, che, come delle nuove mangiatoie dimenticate di questo nostro tempo ingarbugliato, tanto vuoto ma anche tanto anelante, forse sono i veri luoghi da cui ricominciare, i nuovi “grembi” da cui ripartire, imparando a nascere e a rinascere. Sempre e comunque!

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