Sinodo universale – Conversazione con il padre domenicano francese Hervé Legrand

Padre Hervé Legrand (1935), prete domenicano francese è un teologo specializzato in ecclesiologia ed ecumenismo. Professore emerito all’Istituto cattolico di Parigi è anche esperto per il Consiglio delle conferenze episcopali europee (Comece). Autore di diversi libri, ne scrisse uno con Carlo Maria Martini (1991). Nel 2021 è uscito “Una Chiesa trasformata dal popolo” (Ed. Paoline) che porta la sua firma e quella di Michel Camdessus, economista, membro del pontificio Consiglio Justitia e Pax. Il libro raccoglie contributi di laici impegnati nella Chiesa e nella società e ha come riferimento l’enciclica “Fratelli tutti” e la “Lettera al popolo di Dio” di papa Francesco.

Padre Legrand, con un gruppo di laici ha scritto un libro molto interessante il cui titolo, “Una Chiesa trasformata dal popolo” sorprende nell’attribuire al popolo un ruolo importante nelle riforme in corso. Non è troppo ottimista? Nella nostra Chiesa tutte le decisioni importanti non vengono prese senza l’intervento dei fedeli?

Questa è la situazione e la si giustifica dicendo che il potere della gerarchia viene da Dio e non dal popolo e che la Chiesa non dovrebbe essere una democrazia. Questa giustificazione è troppo netta perché identifica la Chiesa con la gerarchia e fa del laicato il popolo di Dio. Il Vaticano II ha corretto questa deviazione insegnando con vigore che il popolo di Dio comprende tutti i cristiani, semplici battezzati, religiosi e religiose, diaconi, preti, vescovi, nell’unità di un solo corpo, quello di Cristo, animato dallo Spirito Santo, donato a tutti. Ne risulta che la Chiesa è in salute solamente quando tutti i membri del popolo di Dio collaborano, nella loro diversità ad affrontare i problemi che si pongono, perché nella Chiesa nessuno ha il monopolio dei doni dello Spirito Santo. Nella sua Lettera al popolo di Dio papa Francesco non è rivoluzionario e precisa che: “Senza il popolo di Dio, niente può essere fatto (…) Esorto tutti i fedeli del popolo santo di Dio ad andare avanti, spinti dallo Spirito, alla ricerca di una Chiesa più sinodale e più profetica”.

Certo il papa si riferisce alla solida dottrina tradizionale ma, nel farlo, si allontana dal modo di parlare dei suoi due immediati predecessori al punto da sconcertare alcuni fedeli. Aprendo un “sinodo sulla sinodalità” il papa è compreso anche dal semplice parrocchiano?

Ha ragione, questo vocabolario è complicato ma annuncia un programma molto semplice: bisogna riformare il modo in cui si esercita attualmente l’autorità nella Chiesa. Questo è ciò che il papa dice e ridice più volte. Per l’opinione pubblica questo è ormai evidente dopo la scoperta del modo in cui i vescovi e i superiori religiosi hanno trattato gli autori di crimini e delitti sessuali, commessi da più o meno il 3% dei chierici. Queste autorità responsabili hanno gestito i drammi che hanno rovinato la vita di tanti bambini e di persone vulnerabili nello stesso modo con cui lo fa il resto della società: hanno dissimulato i fatti, non si sono interessati delle vittime e hanno generalmente protetto dei delinquenti. Questo è in flagrante contraddizione con il Vangelo. Come si spiega tutto questo? Direttamente dal fatto che l’autorità gerarchica è stata esercitata nel popolo di Dio per alcuni secoli senza alcun contrappeso. Il fatto che un parroco, un vescovo e un papa possano prendere quasi tutte le loro decisioni da soli, senza nemmeno dover spiegare le loro ragioni, peggiora questa situazione. Convocare un Sinodo sulla sinodalità significa quindi voler ripensare il governo della Chiesa a tutti i livelli. E ciò viene alla luce anche nella modalità in cui si sta svolgendo: i fedeli sono i primi a essere invitati a esprimere nelle loro parrocchie le loro opinioni sul tema, le diocesi raccolgono i loro suggerimenti e li inviano direttamente a Roma e contemporaneamente alle loro conferenze episcopali.

Il suo libro è apertamente favorevole a riforme considerevoli e che probabilmente arriveranno ma come risponde alle obiezioni che si sentono? Da una parte si dice che la crisi degli abusi è ciclica e che sarebbe imprudente indebolire l’autorità che struttura la Chiesa? D’altra parte ricorrendo a una consultazione su scala mondiale non è già in qualche modo programmata una delusione tanto grande quanto le speranze suscitate, dal momento che eventuali riforme non produrranno certamente effetti immediati?

Capisco queste paure. Ma descrivere l’attuale crisi come ciclica, cioè vederla solo come un effetto degli abusi, significa minimizzare il suo carattere strutturale. Allo stesso modo, è difficile credere che le riforme in arrivo faranno aumentare le angosce dei fedeli. Non sarebbe più probabile il contrario? In realtà la crisi degli abusi si situa in un contesto in cui la concezione autoritaria della Chiesa che ha prevalso in Occidente fra il 1850 e il 1950 aveva già il fiato corto a causa dei profondi cambiamenti sociali. Fino al 1950 il ruolo dei laici e quello dei chierici erano distinti chiaramente. San Pio X lo dice chiaramente in una delle sue encicliche “nella Chiesa la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, dai suoi Pastori”. Lo conferma il codice di diritto canonico, elaborato nel 1917. La concentrazione di tutto il potere nelle mani del clero era naturale quando le popolazioni europee erano nella stragrande maggioranza rurali, poco istruite, e vivevano in società semplici, fortemente gerarchizzate. Ma questa concentrazione si rivela profondamente inadatta nelle società attuali sempre più urbanizzate, democratiche, iperinformate, complesse e innovative, che favoriscono l’emancipazione degli individui e soprattutto delle donne. In questo contesto l’autorità deve essere esercitata in modo diverso.

Molti cattolici comprendono tutto questo. Ma non tutti. Queste riforme, come quella della liturgia non sono ai loro occhi fedeli alla tradizione e sono contrarie agli insegnamenti che hanno ricevuto. Il suo libro aiuta a rassicurarli?

Credo di sì perché offre diversi studi che mostrano quanto la tradizione più antica non concentrasse tutto il potere nelle mani del clero. Così per esempio i papi del V secolo esigevano dalle chiese locali che eleggessero il loro vescovo che poi veniva ordinato dai vescovi vicini. L’elezione dei vescovi da parte dei rappresentanti della loro chiesa resta scritto nel diritto generale fino al 1917, senza essere applicato. Meglio ancora: un vescovo come san Cipriano (III secolo) mette questo nero su bianco: “fin dall’inizio del mio episcopato mi sono dato la regola di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza il suffragio del popolo e il consenso dei preti”; arriva persino a scrivere che “il popolo di Dio ha il potere di eleggere vescovi degni e di ricusare gli indegni” (Lettera 67). Un altro studio mostra che il vero potere dei sacerdoti è una dimensione della loro ordinazione come pastori, non una qualifica della loro persona, che li rende „ontologicamente diversi dai laici“, come a volte si sostiene oggi, attribuendo così una falsa sacralità al loro esercizio del potere. La fedeltà alla tradizione ci invita a correggere questa cosa. La tradizione, tuttavia, non è una ripetizione del passato, perché è una trasmissione che ha come criterio la sacra Scrittura. Il libro illustra questo punto mostrando che, sebbene la Chiesa non abbia mai ordinato donne cristiane sacerdoti o vescovi, questo non impedisce che un giorno non si possa farlo. Ciò avverrà quando si avrà riconosciuto che la Tradizione di Gesù, ciò che ci ha tramandato, non vi si oppone in linea di principio e che le mutate condizioni culturali lo permettono.

Certamente mostrare la legittimità di tali ordinazioni sarebbe un passo importante verso un’adeguata comprensione dell’autorità cristiana. Eppure Giovanni Paolo II ha risolto definitivamente la questione. Questo come si concilia con quanto avete detto appena sopra?

È possibile perché come teologo sono attento al valore rispettivo dei documenti del magistero. Per i canonisti, la parola “definitivo” ha un significato molto preciso: definitivo significa che non potrà essere cambiato se non allo stesso livello di autorità, in questo caso inferiore a quello di un dogma. È necessario attenersi a questa decisione di natura disciplinare, che tuttavia non vieta ovviamente la riflessione sulla questione. Il libro mostra, infatti, che Gesù non gerarchizza mai le relazioni tra donne e uomini. Così facendo, Gesù si separa nettamente dal giudaismo e dalla cultura greco-romana. Anche se viene spesso affermato, è impossibile vedere un’esclusione delle discepole nella costituzione del gruppo dei dodici. Di fatto però, l’inclusione di una donna in questo gruppo avrebbe privato di significato il messaggio di Gesù alle dodici tribù di Israele. Allo stesso modo, è facile capire che le prime comunità cristiane non potevano immaginare di mettere le donne al comando. I testi non dicono mai che si siano astenuti dal farlo per fedeltà a Cristo. L’esclusione delle donne dalla vita pubblica in tutte le società che ci hanno preceduto fino alla metà del XX secolo, anche in Europa, getta più luce su questo fatto che non una presunta misoginia cristiana, avanzata da persone prive di background storico.

Il suo libro è molto attento al rapporto tra la Chiesa, la società e la cultura. Perché non menziona mai la democratizzazione della Chiesa, quando la sinodalità ha così tanto in comune con essa?

Questo è vero. I sinodi diocesani, organizzati dai canoni da 460 a 468 del diritto vigente, si svolgono secondo procedure democratiche. Assicurano che il maggior numero di persone sia informato, come in una democrazia. Ma cercano un consenso più ampio che in una democrazia, favorendo così il negoziato per raggiungerlo, nel rispetto delle minoranze. I sinodi o i concili hanno il compito primario di trasmettere una fede che non cambia. Il loro ruolo è quello di mantenere la comunione tra le loro chiese, perché mentre ogni diocesi è pienamente la Chiesa di Dio, non è però la Chiesa intera. Questo porta a tensioni come quelle del cammino sinodale tedesco. Sono necessariamente negative? È probabile che negare i problemi sarebbe più pericoloso.

La maggior parte delle mie domande finora è stata sulla vita della Chiesa, mentre il suo libro è mostra il ricco contributo della Chiesa alla società. Da dove viene questa ricchezza?

Questo orientamento fondamentale della riflessione proviene dall’equipe di una decina di laici veramente qualificati che ha elaborato il testo. Da parte mia, come teologo, mi ha fatto particolarmente piacere vedere come abbiano saputo tessere uno stretto legame tra la vita della Chiesa (la sua vita comune, la sua sinodalità che è una questione ecumenica importante) e la sua testimonianza nella società (il bene comune). Perché il nostro modo di stare insieme davanti a Dio qualifica il nostro modo di vivere con gli altri, così come la nostra solidarietà con gli altri qualifica il nostro atteggiamento davanti a Dio. Infatti, la salvezza cristiana non è individuale. Ci introduce in modo inseparabile nella comunione con Dio e con gli altri.

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