Ci siamo occupati più volte su questo giornale della strage di Cefalonia, sul martirio dei soldati italiani mandati allo sbaraglio nell’isola greca dopo l’Armistizio dell’8 settembre, massacrati dalle milizie tedesche di Hitler. Lo abbiamo fatto per vari motivi. Perché credevamo fosse giusto e necessario rendere testimonianza a quei coraggiosi soldati che in condizioni alquanto precarie decisero di non arrendersi e di battersi per salvare il proprio onore militare.
Perché quello fu – come ebbe a dire una volta l’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi – il primo atto di resistenza, compiuto prima ancora che le bande partigiane si andassero organizzando nel centro e nel nord d’Italia. E anche perché c’era una sete di giustizia da assecondare, il desiderio nutrito dai famigliari delle vittime di vedere processati, e possibilmente condannati, i responsabili di quell’infame eccidio.
Oggi torniamo a scrivere del “caso Cefalonia” forse per l’ultima volta. Sì perché lo scorso agosto è morto Otmar Muhlhauser, l’ultimo dei colpevoli ancora in vita. Il 2 gennaio del 2009 la procura militare di Roma aveva chiesto per lui il rinvio a giudizio con l’accusa tra l’altro di avere ordinato la fucilazione del generale Antonio Gandin, comandante della Divisone Acqui, e di altri ufficiali.
Circostanza che Muhlhauser aveva confermato in un precedente processo, allorquando ebbe a dichiarare: «L’ordine del Führer era chiaro, gli italiani andavano trattati completamente da traditori e al tradimento vi è una sola risposta, l’esecuzione». La sua scomparsa comporterà automaticamente l’estinzione del processo. Con la morte di Muhlhauser si spegne anche la speranza di avere giustizia nutrita da Marcella De Negri.
Aveva solo 5 anni quando suo padre, il capitano Francesco De Negri, ufficiale di complemento, vicecomandante della batteria antinavale SP 33, aggregata alla divisione Acqui, fu ucciso nella strage di Cefalonia. Per decenni Marcella ha coltivato il ricordo del padre e dei suoi compagni caduti. Quando nel 2000 venne alla luce il famigerato “armadio della vergogna”, scoprì che nel dopoguerra le indagini sull’eccidio di Cefalonia, insieme a quelle su altre stragi nazifasciste, erano state insabbiate dai procuratori generali militari della Repubblica italiana.
Evidentemente i governi italiani avevano preferito dimenticare. Da quel momento la signora De Negri ha intentato la via dei tribunali con la speranza che i colpevoli fossero rintracciati, giudicati e condannati. Ma senza molta fortuna. Tutti i processi che si sono svolti negli anni in Germania e in Italia si sono conclusi con assoluzioni o proscioglimenti.
Nel 2005 Marcella De Negri si è costituita come parte civile a Monaco di Baviera contro il sottotenente Otmar Muhlhauser, il militare tedesco che aveva comandato il plotone di esecuzione. Il procuratore August Stern lo aveva prosciolto per prescrizione sostenendo che i militari italiani dovevano essere considerati “traditori” e quindi meritevoli di morte. Vi furono proteste vibranti e ricorsi.
Due anni fa i legali della De Negri hanno chiesto che venisse aperta un’inchiesta in Italia a carico di Muhlhauser. Ma ancora una volta si è esitato, rinviando di mese in mese l’inizio del procedimento. Fino alla morte dell’imputato.
E così, 66 anni dopo la strage, le vittime di Cefalonia continuano a non avere giustizia.