Però il quadro d’insieme non è cambiato. Ancora una volta, a una valigia si affidano i sogni e a un mezzo di trasporto la speranza. Il desiderio di una vita migliore, ma a che prezzo? Facciamo un rapido excursus storico. Tra il 1860 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall’Italia. Nell’arco di poco più di un secolo un numero di persone superiore all’ammontare dell’intera popolazione al momento dell’Unità d’Italia (23 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì, famiglie intere o singoli individui, in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale.
Molti di coloro che emigrarono oltre oceano non fecero più ritorno. In tanti morirono nelle miniere, nei cantieri edili o ancora per malattie o futili motivi. E oggi? Secondo il sito web www.maioproject.org l’Istat (Istituto nazionale di statistica) ci dice che nel decennio 2000-2010, sono andati all’estero 316.000 giovani di età inferiore ai 40 anni. Ma solo nel 2009 oltre 80.000 italiani sono espatriati secondo i dati dei Comuni: + 20% rispetto al 2008. Di questi si stima che la gran parte siano giovani, di cui il 70% laureati. Ad andare all’estero sono più uomini che donne, più trentenni e lombardi. La Germania il Paese preferito come punto d’arrivo. A rivelarlo sono i dati più recenti dell’Anagrafe della popolazione Italiana Residente all’Estero (Aire). Oltre 10mila i laureati in uscita, il doppio di quelli di rientro.
E si conferma la preponderanza di giovani: gli emigrati della fascia di età 20-40 anni sono aumentati in un anno del 28,3%, alimentando quella che viene definita “la fuga dei talenti” che nel 2012 ha costituito il 44,8% del flusso totale di espatrio. In pratica su ogni 10 persone emigrate 7 sono laureati/e tra i 24 e i 40 anni. Questi dati inquietanti vengono quasi ignorati dai maggiori quotidiani italiani e dalle tv nazionali. Per altri motivi, viene solo citata la cosiddetta “fuga dei cervelli” che si può quantificare, al massimo, in un paio di migliaia di persone. Tuttavia, oltre ai “cervelli” si scopre che la nostra Italia rivive l’emigrazione anche di parecchi “muscoli”.
Se possiamo, consoliamoci con la constatazione che anche la Grecia, la Spagna e il Portogallo hanno lo stesso problema dell’emigrazione, anche se minore in termini quantitativi. Il paradosso. Il numero di cittadini stranieri presenti in Italia, secondo i dati forniti dall’Istat, al 9 ottobre 2011, era di 4.029.145 unità, pressoché gli italiani nel mondo iscritti all’Aire. Ancora oggi, l’italiano all’estero viene visto come “l’emigrante” per antonomasia, malgrado molti lo identifichino come un modello d’integrazione. Ma per arrivare al “modello integrazione” ci sono voluti 150 anni, il tempo intercorrente tra la creazione dello Stato unitario e i giorni nostri.
Gli ormai numerosissimi “emigrati integrati”, sanno perfettamente che la decisione di emigrare comporta tanti sacrifici e rinunce, di carattere morale e d’identità. Il pensiero di vivere lontano dalla propria terra o dalla famiglia si rivela assillante in certi momenti. Il desiderio insistente di andare a trovare i propri cari fa sì che i chilometri sembrino metri o la paura dell’aereo svanisca nella prospettiva di rivedere il fratello, la sorella o ancora quei genitori che non si vedranno invecchiare. Comunque sia, ai giorni d’oggi e con l’Europa unita, il termine “emigrato” sembra assumere un’altra accezione, ma solo in termini filologici, è pur sempre una persona che si vede costretta ad espatriare per necessità perché nel proprio paese non trova le condizioni per la vita a cui aspira.
Diversamente da quanto avvenne in occasione dell’ultima ondata di emigrazione italiana, negli anni 60-80, l’italiano che verrà in Svizzera, in particolare in quella romanda, non dovrà avere paura della xenofobia di un altro signor James Schwarzenbach, non dovrà nascondere i figli negli armadi e non si sentirà chiamare con i diversi nomignoli ineffabili riservati all’epoca agli immigrati italiani quali “Ritals”, “Piafs”, “Pioums”, “Maguttes” e altri. Sentirà tuttavia, come noi la abbiamo sentita a nostra volta, la nostalgia per le persone care che è stato costretto a lasciare e per i luoghi natii che ha abbandonato. Quando li incontriamo aiutiamoli, anche solo per risparmiagli quella maledetta percezione di solitudine che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle.