Oltre il 25% dei giovani italiani è disoccupato. Chi non lo è deve fare i conti con stipendi da fame, lavori provvisori e mal pagati, contratti a progetto, quando ci sono, e stage che si susseguono uno dietro l’altro senza mai risolversi in vere assunzioni. E quella dello stagista a vita è la condizione che più rappresenta il giovane italiano, ancor più se qualificato, disposto a lavorare gratis di fronte alla nera prospettiva di mandare al diavolo anni di studio e sacrifici o peggio di diventare un Neet, ovvero un not in education, employment or training, più volgarmente un nullafacente.
Allora, si resiste fin che si può, uno stage dopo l’altro, con un laurea da 110 e lode e quattro soldi in tasca, nella speranza che un giorno quel contratto da apprendista si trasformi in uno da vero professionista. Alla fine però, arrivati a trent’anni, ci si accorge che quel primo stipendio decente non è ancora arrivato, che si vive da studenti anche dopo anni dalla laurea, e che ci si ritrova ancora poveri, con affitti e bollette da pagare, mantenuti dai propri genitori, e in appartamenti condivisi con altri coetanei pur di non rinunciare alla propria sudata indipendenza.
Restano allora tre possibilità: continuare a vivere da pezzente ma con la speranza di riuscire prima o poi a realizzare il proprio sogno, rinunciare a quest’ultimo e trovare un’alternativa lavorativa, oppure andare via dal proprio Paese. Secondo i sondaggi, il 97% dei giovani opterebbe per quest’ultima alternativa, ma solo chi è più determinato fa veramente le valigie e tenta fortuna altrove.
E chi ha fatto questo grande passo ha riscoperto un mondo: non tornerebbe mai in Italia e dice di aver scoperto cosa sono i diritti, che può pretendere di essere pagato per il proprio lavoro, che si sente riconosciuto e che magari può anche sperare di fare carriera, di avere aumenti di stipendio e addirittura una pensione. Insomma, si riscopre risorsa utile per la propria comunità. Al contrario, i giovani nostrani arrivano a ringraziare il datore di lavoro che li ha scelti tra gli altri per essere sfruttati. E alla fine finiscono non solo per lavorare gratis ma addirittura per rimetterci, visto che tocca pagarsi da soli benzina o abbonamenti ai mezzi di trasporto per raggiungere il posto di lavoro.
Sono rare, infatti, le aziende italiane che offrono un rimborso spese ai propri stagisti, e quelle che lo fanno si trovano soprattutto al Nord. Per le imprese rappresenta un furbo modo per non pagare la forza lavoro o sostituire a costo zero ferie o malattie. Non è un caso, infatti, che proprio in estate, quando cioè l’organico va solitamente in ferie, il giovane sa di avere più speranza di essere assunto come stagista. Sacrificio sopportabile se lo stage in Italia fosse veramente quell’utile strumento temporaneo che prepara il giovane al mondo del lavoro, quell’intramezzo tra studi e professione.
In realtà, ad essere stagisti non solo studenti, laureandi o neolaureati, ma anche giovani qualificati che svolgono mansioni altrettanto qualificate, che non hanno più solo da imparare ma anche qualcosa da insegnare. Allora, quando si vuole partecipare ad un concorso e si legge di elencare le esperienze professionali accumulate, si evidenzia un paradosso. Come poter dimostrare che quello stage non è stato in realtà uno stage ma un’esperienza di lavoro a tutti gli effetti? Il rischio è che si venga esclusi perché per quel particolare ruolo occorrono formalmente dei contratti di lavoro vecchio stampo.
Ed ecco che se all’esclusione per raccomandazione si aggiunge anche questa, le possibilità per i giovani si assottigliano ulteriormente. È la conseguenza di un sistema tutto italiano, in mano al nepotismo e ai raccomandati, che appiattisce le figure, che non punta sulla qualità ma sul risparmio e che non premia il lavoro e la meritocrazia. Consapevole di questo, il giovane ha perso ormai stima in se stesso e finisce per contribuire lui stesso a quel perverso meccanismo che lo porta ad essere calpestato.
Quando si candida all’ennesimo stage, si mostra disposto a tutto, a lavorare oltremisura e per pochi soldi, quale elemento che farà risparmiare l’azienda. Sa che pretendere troppo potrebbe danneggiarlo perché come lui a volere quel posto ce ne sono mille altri. Così, a volte è meglio togliere esperienze professionali dal curriculum, per evitare di dare l’impressione di essere una persona pretenziosa e che potrebbe dare fastidio. Ecco un altro motivo per cui la meritocrazia, da criterio di selezione, si trasforma in Italia in criterio di esclusione.
Quella del giovane precario a vita è una condizione piuttosto recente, nata in Italia con le tanto contestate leggi Treu del 1997 ed il decreto ministeriale 142 del ‘98, con l’obiettivo di promuovere l’occupazione e la mobilità mediante la disciplina di “contratti di fornitura di prestazione di lavoro temporaneo” e “tirocini formativi e di orientamento”. Il risultato è stato che piuttosto che mobilità, in Italia si inaugurava l’era della precarietà, quella degli operai del terzo millennio, dei progettisti e degli stagisti.
Qualche anno fa, nel Paese è nato un blog che ne riporta storie e testimonianze. Si chiama “Repubblica degli stagisti” e negli anni ha promosso diverse iniziative, tra cui quella di una carta dei diritti dello stagista che si inserisce all’interno del progetto “bollino ok stage”, nato con “l’obiettivo di riportare lo stage ad essere un’anticamera del lavoro, – si legge sul sito – e di garantire che persone già formate (con laurea o addirittura master alle spalle) non debbano più sostenere di tasca propria i costi per il completamento della formazione”.