Gli amici lettori ci scuseranno se, vista la tristezza della vita politica presente, in questa rubrica ci occupiamo stavolta di una figura del passato. Si tratta del figlio di un ebreo siciliano,
battezzato a Parigi a mezzogiorno del giovedì 14 dicembre 1503 con il nome di Michele. E visto che i figli convertiti degli ebrei spesso non mantenevano il nome di famiglia, non si sa mai che non venissero riconosciuti, il papà di Michele decise di dare al figlio il nome della cattedrale nella quale aveva avuto luogo il battesimo: la cattedrale di Notre Dame.
Il bambino si chiamò allora Michele di Nostra Signora, latinizzato con Nostradamus. Ancora oggi chi, venendo da Parigi in macchina, e guidando in direzione di Avignone, arrivasse al villaggio di Saint Remy, e volesse quindi concedersi una pausa, provi a parcheggiare in piazza Lou Planat. In direzione sud, è riconoscibile un palazzo che tradisce le rughe dei secoli. Sull’architrave del portoncino è ancora leggibile l’iscrizione Soli deo gloria (solo per la gloria di Dio). Proprio in quella casa nacque Michele, figlio di Giacomo, il cui cognome ci è rimasto ignoto.
Portando il piccolo Michele alla fonte battesimale di Nostra Signora a Parigi, Giacomo sapeva bene che gli avrebbe evitato una condanna e la confisca dei beni, visto che all’epoca non tirava una buona aria per gli ebrei europei. Giacomo, dicevamo, era un ebreo siciliano, fuggito dalla Trinacria a seguito della istituzione della Santa inquisizione su tutti i territori sotto il controllo spagnolo, dopo la promulgazione delle prime leggi razziali della storia dell’umanita, nel 1492, per ordine dei cattolicissimi reali di Spagna, Isabella e Ferdinando.
Molti tra i compagni di sventura di Giacomo erano riusciti ad arrivare in Provenza dove il re locale, Renato D’Angiò, offriva protezione, in particolare agli ebrei ricchi che quella protezione se la potevano permettere. Arrivato in Provenza, quindi, il “popolo dei senzacasa”, come li chiamava lo storico Celsio, si disperse nelle belle colline e villaggi della zona. E mentre i villani provenzali se ne andavano nei campi con la zappa e la vanga, i “senzacasa” iniziarono a praticare la medicina, le arti, il commercio, la procura fiscale e il prestito a strozzo. E mentre i cavalieri locali se ne andavano carichi di ferro e di gloria a morire per qualche causa nobile, i “senzacasa” si stabilivano nelle città, si circondavano di oro e spezie, formavano le biblioteche, leggevano le stelle, studiavano i pianeti, si esercitavano nella farmacia e nell’erboristeria e, infine, sempre per dirla con Celsio, “praticavano i misteri”.
Quali misteri? Chiederete voi. Ci arriviamo subito. Intanto diciamo che, morto Renato D’Angiò e passata la Provenza sotto la corona di Francia, il clima cambiò anche per il “popolo dei senzacasa” e gli ebrei che volevano salvare il patrimonio furono costretti ad immergersi a turno nelle fonti battesimali. E tra questi fortunati nuovi cristiani c’era appunto Michele, il quale potè così permettersi una spensierata infanzia in una delle regioni più belle del mondo.
Crescendo, però, Michele si dimostrava un ragazzo diverso dagli altri. Più pensoso, più introverso. Mentre gli altri giovani si riempivano di vino nelle taverne, o giocavano alla Morra o alla Betie, Michele si raccoglieva di sera con pochi amici per parlare delle stelle e di come, a sentir lui, la terra era rotonda, e non piatta, come tutti sanno. E di come, a sentir lui, è la terra che gira attorno al sole, e non il contrario, come tutti sanno. Discorsi, questi, che facevano rizzare i capelli a papà Giacomo, perché, all’epoca bastava molto meno per finire arrostiti su un qualche rogo.
Giacomo pensò bene allora di fare studiare il figlio in qualche altra facoltà, medicina per esempio, e da qualche altra parte, Avignone e Montpellier. Ma anche qui, le cose non migliorarono. Le belle avignonesi che danno i baci più dolci del mondo e che, secondo Pantagruel, jouent volentiers du serrecroupiére, Michele non le vedeva neppure. Mentre i suoi amici di facoltà alla sera si infilavano nelle porticine di Via della Maddalena Coricata (ad Avignone c’è ancora), Michele preferiva andare nei campi a raccogliere erbe medicinali. E fu proprio per queste sue stranezze che cominciò ad attirare su di sé i sospetti di stregoneria.
Fino a quando a Montpeiller entrò la peste nera: una epidemia che in tutta Europa provocò qualcosa come 75 milioni di morti. Con la peste tutto fu dimenticato. Le chiese si riempivano, mentre i cadaveri venivano ammucchiati sul ciglio delle strade. I notai piazzavano in mezzo alle vie i loro tavolini per poter ascoltare le ultime volontà gridate dai moribondi alle finestre. Gli studenti se l’erano squagliata, mentre i pochi medici rimasti si coprivano con scafandri e si riempivano la bocca d’aglio.
Michele no. Se ne andava tra gli appestati senza scafandro, senza aglio e senza spugne acetate sotto il naso. Un temerario? Un pazzo? Un posseduto? Un untore? Il sospetto si diffuse e Nostradamo fu costretto a fuggire. Si rifugò ad Aix, dove aspettò tranquillamente la fine dell’epidemia. Non un germe, non un solo virus si azzardarono a salire sulla giacca di Michele, che uscì dalla peste indenne e sano come un soldato. Ad Aix si sposò e ricominciò ad andare pei campi alla ricerca di erbe. E intanto la sua fama di guaritore e veggente cresceva.
Però, cari lettori, vedo che lo spazio è poco. Nella foga del raccontare non me n’ero accorto. Allora facciamo così: interrompiamo qui, altrimenti diventerebbe anche troppo lungo, e il resto al prossimo numero di febbraio.