Nello scorso numero avevamo iniziato a parlare di Michele, nato dagli amori perfettamente legali di Giacomo, ebreo siciliano in fuga dalle leggi razziali dei reali di Spagna, e di Renata, santa donna e madre; battezzato poi -e non circonciso- nella cattedrale di Nostra Signora a Parigi. Quindi rinominato non secondo il cognome del padre ma, com’era uso per gli ebrei battezzati, secondo il luogo del battesimo. Michele entrò quindi nel mondo dei vivi come Michele di Nostra Signora, latinizzato in Nostradamus.
Lo abbiamo seguito, Michele, mentre s’interessa di astronomia e astrologia in Provenza, mentre studia medicina ad Avignone e Montpelier, mentre va ad erbe nelle campagne, mentre attira su di sé i primi sospetti di stregoneria e commercio con gli spiriti, mentre sopravvive quasi per miracolo alla peste che, nel 16.mo e 17.mo secolo, falcia 75 milioni di persone in tutta Europa. Lo abbiamo visto sposarsi nonostante lo scarso interesse per il mondo femminile, e qui lo abbiamo lasciato.
Ora, lo studio della medicina non era nuovo in famiglia. Papà Giacomo, infatti, aveva messo insieme i suoi danari proprio esercitando, insieme al commercio, quella stessa professione di medico, barbiere e cerusico. Prima di lui il nonno, Pietro, era stato medico e barbiere a Salemi, noto perché curava i pazienti con decotti di sua invenzione; quindi denunciato come falsario ai consoli della città e destituito pubblicamente dalla professione.
Michele tuttavia non somigliava a loro. Più pensoso, più prudente, più notturno. Partiva per la campagna ancora col buio e tornava a buio inoltrato con un pugno d’erbe, sempre poche, che si portava quindi in laboratorio. Lì egli poteva rimanere, appunto, tutta la notte. “Noche tinta, blanco el dia”, gli avrebbe detto papà Giacomo, che in Spagna aveva lasciato probabilmente i suoi avi, cioè: alla notte si dorme, e al giorno si agisce. Ma Michele era di un’altra pasta. La notte la passava piuttosto a filtrare le erbe e a farne unguenti e gelatine per l’eterna giovinezza. Che poi metteva in piccoli e preziosi onci di terracotta, sui quali scriveva a mo’ di etichetta il seguente:
Ciascuna femina decade ogni anno del cinquo per centuo, come la cassia fistula. Essa almeno appetisce naturalmente, se aumentare non può, conservare la sua beltà per allora quando essa è di etade di diciotto ai venti anni. Il quanto essa farà indubitabilmente fino all’etade di sessanta, usando bene e dovutamente della composizione del sublimato che è qui entro.
Insomma, Michele preparava gli stessi unguenti del nonno Pietro, ma a differenza di quest’ultimo, non solo non fu arrestato come falsario, ma una sua gelatina venne presentata alla corte di Avignone, nel 1526, direttamente al Monsignore, Gran maestro di Rodi, il quale ne tesse le lodi e ne offrì addirittura una parte al legato pontificio, Cardinale di Clermont. Cosa ne facessero il Monsignore Gran Maestro di Rodi e il Cardinale di Clermont di una gelatina che mantiene fino a sessant’anni la pelle di una diciottenne, non lo sappiamo.
Volevo solo far notare quanto diversa fosse l’efficacia tra gli unguenti – o “sublimati” come li chiama lui- di Michele e quelli del nonno Pietro. La sua carriera di medico, astrologo e veggente cominciò così ad essere ricca di soddisfazioni. Molti si rivolgevano a lui per oroscopi e per consigli. Tra i tanti c’era la regina di Francia, Caterina dei Medici, pronipote di Lorenzo il Magnifico e di papa Leone X, consorte di Enrico II, italiana anche lei, italianissima, tanto da essere temuta a corte per i suoi intrighi, per i suoi odi supremi, per la sua spietatezza, ma anche cercata per le sue passionalità fuori da ogni confine.
La quale Caterina, nel 1566, chiese una audizione con Michele. Si fece fare l’oroscopo personale e quello dei figli e, alla fine del colloquio, rimase così entusiasta del suo ospite da nominarlo seduta stante Consigliere e medico del figlio, il futuro re Enrico III di Valois. Ma Michele rimaneva fondamentalmente il solitario che era sempre stato. Tutti questi onori, tutta questa attenzione, lo toccavano sì e no. Gli inviti a corte, come quello di Caterina, o come quello, alcuni anni prima, di Giulio Cesare Scaligero, considerato uno tra i migliori medici ed astrologi dell’epoca, lo lasciavano alla fine insoddisfatto.
Troppo sfarzo, troppa apparenza, troppa vanità. Michele preferiva ritirarsi in solitudine da qualche parte, per esempio nel villaggio di Solon, nella sua Provenza. Di giorno raccoglieva erbe, di sera si chiudeva nella biblioteca. In essa, dietro ai libri leciti, come l’Etica del filosofo Aristotele o la Summa Theologica del doctor angelicus, Tommaso, nella quale si conciliavano finalmente fede e ragione, e nella quale ancora oggi si possono leggere le cinque prove a posteriori dell’esistenza di Dio; in essa biblioteca, dicevo, dietro i libri che tutti potevano, anzi, dovevano leggere, se ne trovavano altri, più nascosti, magari dietro uno stipite segreto dello scrittoio.
Quali libri segreti? Chiederete voi. Intanto il Libro della legge, in ebraico quadrato, cioè non la vulgata latina di san Gerolamo, quella che tutti potevano (e dovevano) leggere. C’erano poi altri libri misteriosi in greco. Ma soprattutto c’era il libro della Cabala, la scienza ebraica dei numeri. E proprio sul libro della Cabala Michele stava chinato tutta la notte, alla luce di una candela di sego. Ed ecco apparire in quella luce fioca il 1492, anno delle leggi razziali e, guarda caso, anno della morte di Lorenzo il Magnifico e, guarda caso, anno della scoperta dell’America da parte di quel Cristoforo Colombo, anche lui in fuga dalle giudecche di Genova.
Ed ecco, a specchio, il 1942, l’anno delle grida di Dachau e Mathausen, l’anno più feroce dell’olocausto, l’anno in cui anche l’America rifiuta le navi cariche di speranze giudee in fuga da tutta Europa, e le rimanda a Dachau e a Mathausen. Ed ecco la cifra interna dei due numeri, il sei, della stella di David. Ed ecco la sommatoria comune, il tre, la cifra della perfezione, l’Alfa e l’Omega, la fine e l’inizio.
Michele si alzava dai libri al mattino, emaciato di stanchezza, esangue, con gli occhi sprofondati nelle orbite scure; spegneva la candela di sego e si preparava per partire alla ricerca di erbe in campagna. Quando dormisse, non si sa. Ma mi accorgo che nella foga del racconto ho già occupato lo spazio a disposizione. Succede sempre così, accidenti! Allora, magari, il resto lo raccontiamo con più calma la prossima volta. E spero non me ne vogliate.