Nella foto :Dr. Angela Janelli
di Nicola Coronato - 

Una serie realizzata dal Corriere d’Italia in collaborazione con il Consolato italiano a Francoforte, a cura del Dr. Nicola Coronato. La città di Francoforte sul Meno sta divulgando la propria storia d’immigrazione con la mostra Kein Leben von der Stange – Geschichten von Arbeit, Migration und Familien al Historisches Museum Frankfurt am Main. Il compito di allestire questa mostra è stato affidato alla nostra connazionale Dr. Angela Jannelli, curatrice al Historisches Museum e che vi presentiamo in questa edizione

Angela ci racconti delle origini della tua famiglia?
Mio padre è originario di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza. Si trasferì, come molti nostri connazionali nei primi anni ’60, prima in Baviera e poi nel Baden-Württemberg ad Albstadt per lavorare come insegnante d’italiano. Mentre mia madre è tedesca e originaria di Albstadt, dove nel 1973 sono nata io e tre anni dopo mia sorella Antonia.

Quindi cresci bilingue con un insegnate d’italiano a casa?
Si e se ci penso oggi posso dire che i miei genitori erano già allora molto emancipati. Mia madre lavorava il pomeriggio dopo che mio padre tornava da scuola. Quindi per noi la mattina si parlava il tedesco e il pomeriggio l’italiano. Mia madre poi ha imparato l’italiano in pochissimo tempo e lo parla veramente bene, tanto da offrire corsi di lingua e di cucina italiana alla Volkshochschule di Albstadt.

Ci racconti della tua formazione scolastica e universitaria?
Dopo la scuola materna ed elementare continuo la formazione scolastica al liceo di Albstadt, dove risulto essere non solo l’unica italiana ma anche l’unica straniera in classe. Un’esperienza non sempre piacevole perché a volte le mie origini erano oggetto di scherno. Comunque continuo gli studi e supero nel 1992 l’esame di maturità, ovvero l’Abitur. Interessandomi già a scuola per lettere e lingue scelsi di iscrivermi nel 1992 all’università di Tübingen al corso di laurea Neue Deutsche Literaturwissenschaft, Romanistik e Empirische Kulturwissenschaften, studiando oltre al tedesco anche l’italiano e il francese. Gli studi all’università mi permisero anche di passare un anno al sud della Francia, precisamente ad Aix-en-Provence, e nel frattempo scopro anche l’interesse per le scienze culturali. Rientrai quindi in Germania trasferendomi ad Amburgo dove termino gli studi nel 1999. Decisi poi di iscrivermi al corso di dottorato di ricerca in letteratura comparata all’università di Amburgo. Nonostante questo lavoro mi permettesse di fare ricerca anche a Parigi, sentivo però che non mi completava del tutto. Decisi allora di provare a lavorare in un museo. Feci una prima esperienza piacevole lavorando come studentische Hilfskraft all’Altonaer Museum di Amburgo. Questo museo si trovava sulla strada che mi portava alla metropolitana e un giorno passando davanti ebbi l’idea che proprio il museo potesse essere un lavoro adatto a me. All’Altonaer Museum lavoravo nel reparto di nautica, inventariando più di 10000 carte nautiche di varie epoche. Il mio primo vero e proprio posto di lavoro in un museo fu al Museum der Arbeit, sempre ad Amburgo. Lì incontrai il direttore Gernot Krankenhagen e la vicedirettrice Lisa Kosok, due persone con tanto entusiasmo e che avevano capito che mezzo potentissimo può essere un museo per trattare dei temi sociologici, loro mi hanno influenzato moltissimo. Seguono quasi 10 anni di lavoro da libera professionista tra la Germania, la Francia e la Svizzera prima di ritrovarmi poi nel 2010 a Francoforte, dove vivo e lavoro tutt’ora.

E il dottorato?
L’ho continuato parallelamente al lavoro e terminato nel 2012 sempre ad Amburgo cambiando però il soggetto. Dedicai le mie ricerche ai musei amatoriali, strutture che ho visitato con piacere e che mi hanno sempre affascinato. Mi resi conto infatti che nella letteratura scientifica si parlava poco di questi musei e in quel poco che era stato scritto su di loro, venivano considerati troppo conservativi e non proiettati verso il futuro, tale idea non rispettava ciò che invece io avevo conosciuto. Mi spingeva inoltre l’intenzione di voler capire le motivazioni di centinaia di volontari che si impegnavano in questi musei. Seguii alcuni musei per anni osservando come organizzavano e usavano gli spazi, la collezione e gli oggetti e quale struttura narrativa era sottoposta ai rispettivi musei. Questo lavoro mi ha influenzato molto nel mio modo di allestire oggi le esposizioni. Ho capito che bisogna dare importanza non solo agli oggetti ma anche alle relazioni che si stabiliscono tra i collaboratori e i donatori degli oggetti e soprattutto alle storie che legano le persone a questi oggetti. Per me è così cambiata la prospettiva.

Hai organizzato una mostra raccontando delle storie di migrazione nella città di Francoforte. Cosa vi ha spinto ad organizzare questa mostra?
Tutte queste storie migratorie fanno parte della memoria culturale tedesca e quindi bisogna integrarle ancora di più nelle istituzioni culturali e nella memoria collettiva. Per questo motivo abbiamo fatto questa esposizione, sperando che gli italiani, ma anche gli altri emigrati, vedano rappresentata un po’ della loro storia nel museo. Forse cosi riescono a considerare il museo storico un po’ come punto di riferimento per la loro storia e magari si spera anche di diversificare il pubblico e la collezione del museo.

L’immigrazione ti insegue quindi anche nella tua vita professionale.
È la prima volta che organizzo un’esposizione sulla migrazione. Fino a qualche anno fa non volevo essere considerata come una tedesca con il cosiddetto Migrationshintergrund, una tedesca con origine migratoria. Mi considero una italotedesca. E secondo me non bisogna neanche quantificare quanto si è italiano oppure tedesco, anche se tutti te lo chiedono. Non posso dirti quante volte ho dovuto rispondere alla domanda: “Ti senti più italiana o tedesca?”. Non saprei infatti dire dove finisce la mia identità italiana e dove inizia quella tedesca. Secondo me è tempo di superare le vecchie idee di omogeneità, sia culturale che sociale. Dovremmo renderci conto che non è mai esistita una cultura “pura”. C’è sempre stato un movimento di idee, di persone e di oggetti. La cultura è sempre stata ibrida. Con questa esposizione ho infatti capito che ora tocca anche a noi – i rappresentanti della cosiddetta seconda generazione – dire che siamo qui e che facciamo parte di questa società e della memoria collettiva, pretendendo che le istituzioni culturali siano anche le nostre. Anche perché la cultura non è un concetto chiuso, non è un contenitore dal contenuto omogeneo. La cultura è come la trama di un tessuto, composto da tanti fili intrecciati, magari anche da fili di origini diverse, che lo uniscono rendendolo unico e bello.

Quali saranno i tuoi prossimi progetti e quali sono i tuoi sogni da realizzare nel campo professionale?
Vorrei contribuire nell’affrontare e far condividere il concetto di essere tedesco in maniera più aperta, come lo descrive lo storico tedesco Jan Plamper. Lui parla di Plusdeutsche, ad esempio tedeschi con influenze di origini italiane oppure turche. In questo modo si è tedeschi senza dover negare le altre influenze o origini e quindi di essere tedeschi in maniera più aperta. Il mio prossimo progetto è una mostra sul nazionalsocialismo e le ripercussioni in Germania. Quindi il prossimo passo è di elaborare e far percepire quel momento storico-culturale importante per la memoria culturale tedesca a tutti i tedeschi, anche per chi è tedesco e ha origini di altre nazioni.

Collabori con musei italiani?
Purtroppo non c’è stata ancora un’occasione, ma mi piacerebbe collaborare ad esempio con Milano, città gemellata con Francoforte. Mi piacerebbe fare una mostra su quei venditori di tessuti che hanno dato al nostro municipio il nome Römer. Chi lo sa se si riescono a trovare delle tracce di quelle famiglie, sarebbe qualcosa di veramente storico.


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