L’accelerazione della crisi in medio oriente è un atto irresponsabile di Donald Trump

Con il passare dei giorni, l’uccisone del generale iraniano Qassem Soleimani ordinata il 3 gennaio dal presidente Donald Trump per motivi di “sicurezza nazionale” non meglio precisati si sta rivelando per quello che è: una decisione controproducente che mette a rischio la sicurezza e la pace di mezzo pianeta. Le reazioni suscitate in Iran non lasciano presagire nulla di buono. Il grido “morte all’America” dei membri del parlamento ha trovato eco nelle strade e nelle piazze di tutto il paese diventando l’inquietante messaggio del popolo iraniano al mondo intero. Esso si aggiunge alle parole di vendetta pronunciate dall’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della repubblica islamica, e a quelle del ministro degli esteri Javad Zarif che ha parlato di un “atto di terrorismo internazionale”.

A queste parole Donald Trump ha risposto con scherno affermando che gli Stati Uniti sono pronti a colpire 52 obiettivi sensibili compresi siti culturali iraniani. In Iran ce ne sono circa venti dichiarati dall’Unesco patrimonio universale dell’umanità e protetti dalla Convenzione dell’Aia per la protezione dei siti culturali siglata nel 1954.

“A loro è consentito uccidere, torturare e mutilare la nostra gente e a noi non è consentito toccare i loro siti culturali? Non funziona cosi”,

ha detto Trump dimostrando un livello di irresponsabilità mai visto prima in un presidente americano. Il fatto che qualche ora dopo abbia corretto il tiro delle sue affermazioni (ma lo ha fatto dopo che il Pentagono aveva escluso tale eventualità smentendo di fatto il presidente) non toglie niente alla gravità delle sue affermazioni.

Ora l’eventualità che gli equilibri già molto precari dell’intera area mediorientale possano saltare a causa dell’annunciata escalation di rappresaglie è diventata certezza e capiremo presto come e contro quali obiettivi si concretizzerà lo scontro. Un primo attacco con missili balistici a corto raggio è stato sferrato l’8 gennaio da Teheran contro due basi militari in Iraq, quelle di al-Asad e di Erbil. Sono basi che ospitano truppe americane e della coalizione compresi soldati italiani (il contingente italiano in Iraq conta circa un migliaio di unità ed è il secondo per dimensione dopo quello americano).

A causa della guerra all’Isis, il sedicente Stato islamico dell’Iraq e della Siria, le truppe americane sono presenti già da alcuni anni in Iraq, paese confinante con l’Iran, ma anche in altri paesi dell’intera area mediorientale e del Golfo Persico. Dopo l’uccisione del generale Soleimani, avvenuta in prossimità della capitale Bagdad, il parlamento iracheno ne ha chiesto il ritiro insieme a tutte le altre forze straniere presenti sul suo territorio.

Trump tuttavia ha subito dichiarato che non lascerà il paese. “Abbiamo lì una base straordinariamente costosa, costruirla è costato miliardi di dollari, ben prima che io mi insediassi. Non ce ne andremo a meno che non ci restituiscano i soldi”. Ma il motivo del rifiuto di ritirarsi probabilmente è un altro. Con la morte di Soleimani le finalità della presenza americana in Iraq sono cambiate bruscamente.

Gli americani resteranno in Iraq non tanto per continuare a combattere l’Isis, fortemente indebolito a causa della morte del suo capo storico al Baghdadi, quanto, evidentemente, per controllare da vicino l’Iran, mantenendo in Iraq i “boots on the ground”, gli scarponi (militari) sul terreno di uno Stato confinante con quello del nemico di sempre. A dimostrazione del mutato scenario venutosi a determinare con la morte di Soleimani, Trump ha affermato che intende rafforzare la presenza americana in Iraq. Altri 5000 soldati stanno per arrivare. Vedremo se questa decisione comporterà, come dovrebbe, una revisione della partecipazione delle forze della coalizione internazionale anti Isis, tra cui molte appartenenti a paesi europei.

L’uccisone del generale iraniano Soleimani da parte delle forze speciali americane è l’ultimo episodio di una crisi in atto ormai da oltre quarant’anni.

Per capirne le origini e l’evoluzione bisogna partire dalla rivoluzione islamica voluta dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. Il movimento rivoluzionario iniziò nel 1978 e determinò, nel gennaio 1979, l’andata in esilio dello scià di Persia Reza Pahlavi. Subito dopo Khomeini rientrò trionfalmente a Tehran dopo circa 16 anni trascorsi in esilio. Per anni tra lo scià e l’ayatollah c’era stata una lotta per il potere e alla fine aveva prevalso il primo. Col ritorno di Khomeini iniziò la rivoluzione iraniana e con essa la fase di profonda trasformazione del paese da monarchia laica filoccidentale a repubblica islamica sciita basata sulla shari’a, la legge sacra dell’Islam.

Nel novembre 1979, 52 membri dell’ambasciata americana a Tehran furono presi in ostaggio da un gruppo di rivoluzionari che temevano che il personale dell’ambasciata potesse favorire il ritorno dello scià. Gli ostaggi furono liberati nel gennaio 1981, dopo 444 giorni di prigionia. L’episodio è passato alla storia col nome di “Crisi degli ostaggi” e, a quanto pare, nonostante siano passati 40 anni non è stato dimenticato.

Da allora ad oggi numerosi altri episodi hanno esacerbato i rapporti tra America e Iran e tutti hanno visto il coinvolgimento dell’Iraq. Di seguito vediamo quali hanno svolto un ruolo cruciale. Il primo è stato la guerra tra Iraq e Iran. Nel settembre 1980 Saddam Hussein dittatore dell’Iraq invase l’Iran dando inizio a una guerra che sarebbe durata fino al 1988. Il nuovo assetto determinato dalla rivoluzione islamica portò allo scontro tra regimi dittatoriali diversi – laico, quello imposto in Iraq da Saddam Hussein; teocratico, quello imposto in Iran dall’ayatollah Khomeini – e tra correnti religiose diverse, quella sunnita prevalente in Iraq e quella sciita, prevalente in Iran.

Con lo scoppio della guerra, l’Iraq stabilì relazioni diplomatiche con l’America che diventò sua alleata contro l’Iran di Khomeini. Dopo i primi successi da parte dell’esercito iracheno, la guerra si trasformò in un bagno di sangue con milioni di vittime da entrambe le parti. Subito dopo fu la volta della cosiddetta (prima) guerra del Golfo (Persico) fra Iraq e una coalizione guidata dagli Stati Uniti (1990 – 1991), guerra causata dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Nel 1998 ci fu l’operazione Desert Fox con bombardamenti di una coalizione angloamericana contro siti in territorio iracheno sospettati di sviluppare armi di distruzione di massa. Nel 2001 ci fu l’attacco alle torri gemelle di New York da parte di terroristi di al Qaida a cui seguì la seconda guerra del Golfo (2003 – 2011). Questa portò alla caduta di Saddam Hussein, ma anche, qualche anno dopo, alla nascita dell’Isis.

L’uccisione di Osama bin Laden fondatore e capo di al Qaida e di Abu Bakr al-Baghdadi fondatore e capo dell’Isis non sono bastate al presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump. Uccidendo Soleimani, che pure aveva combattuto contro l’Isis, Trump ha dichiarato guerra all’Iran e ha portato il mondo sull’orlo di una nuova crisi globale. Il fatto che sia sotto impeachment non ha rappresentato alcun freno al suo ego, anzi ne ha accentuato l’azione. I suoi tweet ne sono la conferma. Nonostante le 80 vittime causate, verosimilmente, dalla prima rappresaglia iraniana ha scritto: “Tutto bene! Missili lanciati dall’Iran in due basi militari situate in Iraq. Valutazione delle vittime e dei danni in corso ora. Fin qui tutto bene! Abbiamo di gran lunga i militari più potenti e ben equipaggiati del mondo! Farò una dichiarazione domani mattina”.

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