Nelle foto: L'orchestra Santa Cecilia. Foto di ©Alter Oper

Con due maestri figli dell’immigrazione

Figlio di emigrati italiani, sir Antonio Pappano, direttore d’orchestra inglese dal cognome spiccatamente meridionale, è assurto a successo mondiale, tanto che la regina Elisabetta II lo ha nominato cavaliere con il tocco della spada sulle spalle. I suoi genitori provenivano da Castelfranco in Miscano (prov. Benevento) e, come tanti altri nostri connazionali, lavoravano a Londra nel settore gastronomia. Negli ultimi 18 anni è stato a capo dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia a Roma, con cui a novembre ha condotto una tournée attraverso la Germania con un programma incentrato sui classici tedeschi dall’inizio alla fine dell’800. Al concerto tenuto a Francoforte era presente anche il nuovo console Massimo Darchini.

Un grande pianista

Beethoven era essenzialmente un pianista: come virtuoso di pianoforte si era formato ed era esordito e si era affermato nel mondo musicale viennese. Come insegnante di pianoforte si guadagnava da vivere. Le sue 32 sonate per pianoforte rappresentano il corpo più grosso e sostanzioso della sua opera creativa. Oltre a ciò egli ha composto 5 concerti per pianoforte ed orchestra, che potremmo ripartire così: 2+1+2. Nel senso che i primi due (in Do magg. op. 15 e in Si bem. Maggiore op. 18) ricalcano il modello imperfettibile dei concerti per piano di Mozart, di cui lo stesso Beethoven era uno sfegatato ammiratore, mentre gli ultimi due (in Sol maggiore op. 58 ed in Mi bem. Maggiore op. 73) realizzano lo stile personale beethoveniano. Posto in bilico fra questi due estremi, il terzo concerto (op. 37) presenta non solo delle difficoltà tecniche, ma anche problemi interpretativi, perché l’esecutore deve essere così equilibrato da porre in luce gli elementi dello stile personale di Beethoven, che vi emergono di prepotenza, senza trascurare quei passaggi di schietto stile mozartiano che pure non vi mancano. Tipicamente beethoveniane, ad esempio, sono le pulsazioni (Pochmotiv, o „motivo bussante“) che costituiscono il secondo motivo del primo tema, che riaffioreranno, sempre più impellenti, nel concerto per violino (op. 61) per arrivare al famoso primo tema, detto „il destino che bussa alla porta“ della quinta sinfonia (op. 67). Anche la tonalità scelta dall’autore per questo concerto, il do minore, lo accomuna alla quinta sinfonia, oltre che all’epocale sonata per pianoforte detta „patetica“ (op.13).

Igor Levit, giovane pianista di grande scioltezza e di straordinaria concentrazione, è stato una rivelazione. Nato a Nowgorod nel 1987, emigrò in Germania con tutta la famiglia all’età di 8 anni. Suo padre era un ingegnere e sua madre un’insegnante di musica, che già all’età di 3 anni gli insegnò i primi elementi. All’età di 6 anni diede il suo primo concerto in pubblico suonando il concerto per piano in Fa maggiore di Händel con l’Orchestra Filarmonica di Nishni Nowgorod. In Germania si stabililì ad Hannover dove continuò il suo studio della musica presso l’Institut für Frühforderung musikalisch Hochbegabter. Più filosofo che virtuoso del suo strumento, Levit ha eseguito un fraseggio di cristallina chiarezza e di perfetto equilibrio, tanto che il pubblico tedesco, sempre così corretto formalmente, stavolta si è permesso di applaudire già al termine del primo tempo. Il secondo tempo (Largo) inchiavato nella tonalità lontanissima di Mi maggiore, è il pezzo più originale del concerto, in cui Beethoven lascia dietro di sé Mozart con i suoi andanti in stile di romanza, per penetrare in una nuova dimensione ancora inesplorata in cui in futuro si avventureranno i romantici. Già i suoi contemporanei la riconobbero come una delle pagine più espressive e ricche di sentimento che fossero mai state scritte fino ad allora. Il pianoforte lo attacca da solo proseguendo su dei blocchi di accordi come se fosse la melodia in funzione dell’armonia, ed inserendosi nel dialogo orchestrale con disegni sempre rinnovati e fantasiosi, scivolando poi con lunghe scale discendenti verso l’accordo finale. Concluso con leggerezza anche il tema sbarazzino del rondò, al pubblico che lo applaudiva ed acclamava Levit ha concesso il bis suonando ’intermezzo in Mi bemolle maggiore op. 117/1 di Brahms.

Sacralità del dolore

La sinfonia in si minore di Schubert è detta „incompiuta“ (unvollendet) perché ce ne abbiamo solo la prima metà, ma da sola è più che sufficiente per costituire una delle somme vette dell’Himalaya sinfonico. Il suo manoscritto venne fortunosamente ritrovato ben 37 anni dopo la morte del suo autore, che la compose nel 1822, lasciandola così in sospeso per i seguenti 6 anni di vita che gli restavano, durante i quali ne compose un’altra interamente, la grande sinfonia in Do maggiore.

Sembra che il destino di questa meravigliosa sinfonia fosse di restare incompiuta.

Il suo attacco è singolarissimo: un lieve, cupo, ondeggiare dei violoncelli e dei contrabassi che sembra emergere da sottoterra, un suono spettrale che il grande direttore d’orchestra del secolo scorso Wilhelm Furtwängler paragonava al lento addensarsi d’una nebbia invernale. La disposizione degli archi nell’Orchestra di Santa Cecilia vedeva i primi ed i secondi violini posizionati alle estremità destra e sinistra, con i violoncelli nel mezzo, il che permetteva al loro suono di emergere più chiaramente: una scelta logistica di sir Pappano, visto il ruolo tutt’altro che secondario che Schubert assegna loro. I temi principali del primo tempo, ha scritto il musicologo Giacomo Manzoni „sono tra le intuizioni più pure e più belle che mai artista abbia realizzato: incredibilmente alta l’arte con cui Schubert sa farli entrare in reciproco contrasto, determinando atmosfere ora trepide ed incalzanti, ora dolorosamente dissonanti, in un’elaborazione sinfonica che non ha nulla da invidiare a quelle del migliore Beethoven“. Schubert però è più intimo e ripiegato in sé stesso, nelle sue „divine lungaggini“ come le qualificava Schumann, fino ad assurgere a una vera sacralizzazione del dolore. Non ci poteva essere un’espressione più perfetta per quello che i romantici chiamavano „dolore universale“ (Weltschmerz). Però sir Pappano ha saputo condurre l’orchestra senza sbandare in un patetismi, con un orecchio ben bilanciato dai più esili pianissimo ai pieni orchestrali saturi di dissonanze del secondo tempo. La sala, che era pienissima, gli ha tributato un lungo e fragoroso applauso.

L’immor(t)ale scherzomane

L’ultimo pezzo in programma, „I tiri burloni di Till Eulenspiegel“ è qualificato dall’autore stesso, il bavarese Richard Strauss, come poema sinfonico, cioè un tipo di composizione per sola orchestra che segue un filo conduttore extramusicale di vario genere, che sia una vicenda onirica (come nella „Sinfonia Fantastica“ di Berlioz), o un testo poetico (come la „Francesca da Rimini“ di Ciaikovski) o addirittura geografico (come la „Moldava“ di Smetana) ecc. Nel nostro caso specifico, si tratta di un personaggio letterario risalente al XIV secolo di cui non si sa con sicurezza se corrisponda a un personaggio storico o sia solo leggenda. È tramandato come un burlone maniaco, che scombussolava i suoi contemporanei con scherzi inauditi: sparge il panico fra le vecchiette al mercato, si camuffa da prete e tiene una predica piena di oscene bestemmie, getta un cane vivo in un tino dove si fa bollire la birra, prende tutte le frasi alla lettera come Franchi e Ingrassia. Però, a differenza del nostro marchese Del Grillo, Till era un popolano, e finirà perciò sul patibolo.

Ma qui i veri tiri burloni sono quelli che il compositore gioca ai danni del linguaggio musicale tradizionale, che scombussola a piacimento, con sorprendente ricchezza di trovate timbriche ed un virtuosismo trascendentale nel trattamento dell’orchestra, Ci sono diversi passaggi in cui la trama armonica diventa così fitta da far perdere l’orientamento tonale, mentre incalza una congeria di motivi diversi, che si rincorrono interrompendosi fra di loro, dando l’impressione di un decostruttivismo ante litteram applicato alla forma musicale, che dovrebbe essere quella di un rondò bitematico. Con questo pezzo l’Orchestra di Santa Cecilia ha saputo dar prova del suo altissimo livello professionale con cui può confrontarsi con le maggiori orchestre delle altre capitali europee.

Grazie, maestro!

Il primo bis consisteva in un pezzo poco noto di Ottorino Respighi tratto dalle Antiche Danze ed Arie, una „Italiana“ del ‘600 riorchestrata per archi. Poiché il pubblico non smetteva di applaudire con slancio ininterrotto, Pappano bis ha concesso come secondo bis la Danza Ungherese nr. 1 di Brahms, eseguita con grande slancio e dinamismo, malgrado l’ora si facesse tarda. Per la nostra Orchestra Nazionale di Santa Cecilia si conclude un’epoca in modo maggiore. Pappano se ne va dopo che gli è stato concesso il titolo di direttore emerito (senza la spada). Il suo posto verrà preso dal purosangue inglese Daniel Harding, che però il pubblico italiano conosce già, avendo egli diretto nel 2011, 2015, 2021 e 2023 i concerti di capodanno dal Teatro La Fenice di Venezia.