Il fotografo Jay Ullal

Jay Ullal… il fotografo di Stern

Jay Ullal, nato a Bangalore (India) nel 1933, è un fotoreporter che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fotogiornalismo mondiale. Jay è stato per oltre 30 anni il fotografo della rivista tedesca Stern, ed è grazie a lui che verso la metà degli anni ‘70 questa rivista compie una svolta importante spostando l’attenzione su temi internazionali. Il connubio Jay e Stern è perfetto, una produzione di fotogiornalismo senza uguali. Jay ha già una visione particolare del reportage, capacità uniche di „entrare“ ovunque, abilità di esecuzione fotografica, tutto ciò unito ad un grande fiuto per le notizie. I suoi reportage fotografici hanno coperto tutto, guerre, genocidi, massacri, miserie, monarchie, attori e attrici, politici, gente emarginata, catastrofi ambientali, pestilenze, colera, lebbra. aids. La sua ampia visione del mondo gli permette di affrontare fotograficamente, tematiche mai toccate prima, lo sfruttamento sessuale dei minori nelle Filippine, in India e in Thailandia, i bambini soldato, sfruttamento minorile, le spose bambine, le vie della droga, il traffico di organi.

Jay mi riceve nella sua villetta appena fuori Amburgo. Mi porta subito nel suo studio, sulla parete sinistra ci sono diverse foto di grosso formato, molti primi piani, riconosco Willy Brand, il Dalai Lama, Arafat, Nehru, Madre Teresa di Calcutta, Indira Gahndi, sulla parete destra centinaia di foto ricordo con personalità di tutto il mondo.

Dalai Lama

Jay qui ci sono decine di fotografie, quali sono i personaggi ai quali ti senti più legato?

Sinceramente con molte di queste persone mantengo ancora oggi degli ottimi rapporti. Ma mi sentirei di dire che con Nehru (Primo Ministro dell‘India dal 1947-1964), Hus Sen (Primo ministro della Cambogia dal 1998 fino ad oggi), il Dalai Lama e Arafat mi sento particolarmente legato. Con loro c’è sempre stato un feeling particolare. Ci legano situazioni, simpatie reciproche, reportage. Tralasciando Nehru che è indiano come me, Hus Sen prima di diventare primo ministro era stato il mio traduttore sia durante la guerra dei Khmer Rossi contro il governo filo-americano e sia dopo quando il Vietnam invase la Cambogia per liberarla dal governo sanguinario di Pol-Pot. Con il Dalai Lama ci lega un’amicizia profonda. Dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina, l’India concesse asilo politico al Dalai Lama, lui si rifugiò in esilio in un piccolo villaggio di montagna, Dharamsala. Nel 1977 fui uno dei primi ad andarlo a fotografare, l’intervista durò 5 giorni! D‘allora abbiamo continuato a mantenere le nostre relazioni.

Ed Arafat?

Arafat

Lui ride, come se in un istante ritornassero nella sua mente tutti i ricordi.

Ti racconto due aneddoti. Un giorno eravamo in Israele per un’intervista a Netanjahu, allora primo ministro, ed aspettavamo di entrare nella stanza di Netanjahu quando la sua segretaria guardandomi mi disse … „Ahh ecco il Signor Ullal, l’amico di Arafat“. Il secondo, avevo supplicato Arafat per anni, di fotografarlo senza Kefiah. Un giorno in uno di questi nostri soliti incontri sono riuscito finalmente a convincerlo e così ho scattato velocemente alcune foto, immortalando per la prima ed ultima volta Arafat senza Kefiah. In una la sua mano sembra, quasi fermarmi.

Hai fotografato tante guerre, ti senti un fotografo di guerra?

Nell‘anno 1962 il conflitto Cino-Indiano è il mio primo reportage di guerra, viene pubblicato dal Times of India. Poi il Vietnam. È il 1963, Life mi chiama, ha già perso 3 fotografi in Vietnam, mi chiedono di seguire per loro la guerra in „assignment“. Per diversi motivi rifiuto. Primo non mi interessava di fotografare „a tempo“ e secondo gli americani avevano uno strano modo di affrontare il tema guerra-giornalismo. Caricavano 10 fotografi su un elicottero trasportandoli al fronte ad una trentina di km e qualche ora più tardi passavano a riprenderli nello stesso punto. Questa non era la mia visione della guerra. Il soldato in combattimento, con il fucile in mano o mentre spara, oppure anche ferito, tutto ciò non mi attirava fotograficamente. Il soldato è lì per combattere ed è consapevole di poter morire. A me interessava „la sofferenza umana“ dietro questi conflitti. Non ti nascondo che anche con Stern abbiamo avuto discussioni accese su come e cosa mostrare delle guerre.

Matrimonio in Libano

Jay hai appena menzionato Life e Stern, poi Stern è diventata la tua realtà.

Io fotografavo per il Times of India, ed ero già abbastanza conosciuto in India, ma il mio sogno rimaneva quello di diventare il fotografo di uno di questi due magazine. Seguivo Life, lo si poteva acquistare abbastanza facilmente in India, Stern invece non era in vendita nel mio paese. Ebbi però fortuna, un amico mi informò che presso l‘ufficio della Lufthansa nella Janpath Road di Dehli, ogni giovedì ne arrivava una copia e questa poteva essere visionata. Così inizio il mio pellegrinaggio settimanale negli uffici Lufthansa per studiare la rivista. Alla fine del 1969, quando già lavoravo in Germania da circa 5 anni per la rivista Constanze, una rivista di gossip, attualità e jet-set, ricevo la tanto desiderata chiamata di Stern. Si avverava il mio sogno, ero anche consapevole che per questa rivista dovevo essere sempre il primo „sul posto“, e lo sono stato tante volte, e produrre reportage di alta qualità. Ho dato tutto me stesso, veramente tutto per questa rivista. Sono rimasto fedele a Stern anche quando Life mi ha richiamato per offrirmi un contratto migliore. Ci siamo lasciati con Stern solo nel 2003, per motivi anagrafici, dopo aver prodotto oltre 200 reportage.

Tra questi “oltre 200“ reportage ce n’è uno che ti è rimasto nel cuore?

Ci sono molti reportage a cui mi sento legato, ma il „Massacro di Damur“, per come è nato, le difficoltà di muoversi sul campo, le forze in campo, l‘improvvisazione, il rischio, la fortuna, la sua tragicità e soprattutto il finale, tutti questi fattori rendono questo reportage straordinario. Gennaio del 1976, insieme con un corrispondente di Stern siamo a Damasco, dobbiamo intervistare Hafiz al-Assad (il padre di Bashar al-Assad), aspettiamo ormai da giorni, ed ogni giorno ci dicono domani. Sono le 3 del mattino e sto ascoltando la BBC quando questa annuncia che i palestinesi stanno attaccando il villaggio di Damur in rappresaglia al massacro compiuto dalle falangi libanesi cristiano-maronite nel campo profughi di Qarantina. È un lampo! Si parte subito per Beirut. Da Damasco sono circa 100 km in macchina. Informo il corrispondente, mi da del pazzo, è troppo pericoloso, eppoi tutte le vie in Siria e in Libano sono chiuse! Mi viene un‘idea. Ho un vecchio contatto al giornale libanese Al-Sharq, un loro fattorino con un permesso speciale ogni mattina trasporta i giornali da Beirut a Damasco eppoi rientra. Il contatto mi aiuta, è fatta per il trasporto verso Beirut. Alle 5 del mattino del 20 gennaio si parte, riusciamo a passare tutti i controlli. Il fattorino come da accordi ci lascia nella centrale dell‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Quando Arafat mi vede sorride e dice “io lo so perché sei qui!“. Arafat firma personalmente i permessi per fotografare e ci mette a disposizione anche 2 palestinesi per accompagnarci a Damur. Arriviamo su una collinetta di fronte Damur, ora dobbiamo proseguire a piedi. Entro nel villaggio nel primo pomeriggio e mi accorgo che sono rimasto da solo, i due palestinesi e il corrispondente sono scomparsi. Cammino e scatto delle foto, arrivo nel centro del villaggio. Davanti a me ci sono un paio di palestinesi armati, io sono alle loro spalle. Da una casa esce una famiglia cristiana-maronita, padre, madre e quattro figli. Il padre piange dice qualcosa, forse supplica qualcosa. Dal palestinese di fronte a me parte una sventagliata di mitra, padre e i due figli più adulti sono morti all‘istante. La madre e i due figli piccoli vengono risparmiati. Improvvisamente il palestinese si gira e nota la mia presenza e mi colpisce alla nuca con il calcio del mitra, perdo i sensi. Quando mi risveglio 5 o 10 minuti più tardi il palestinese urla… urla… che ci fa un fotografo a Damur? Cerco di spiegare che ho il permesso di Arafat, ma non mi crede. Insiste “Dove sono questi permessi?“ Gli rispondo che sono nella borsa con l‘attrezzatura fotografica. Quando legge il permesso firmato personalmente da Arafat mi abbraccia e si scusa centinaia di volte! “Qui puoi fotografare tutto quello che vuoi!“ Mi riprendo e continuo a fotografare in giro. Da una finestra sulla strada sbircio dentro una casa, c’è un palestinese che punta il suo mitra verso quattro persone anziane. Un attimo prima che lui faccia fuoco, scatto una serie di fotografie con il flash, il palestinese si ferma, è come paralizzato, non farà fuoco, e fortunatamente i quattro anziani sono salvi! È buio bisogna tornare a Beirut, il corrispondente è già a Beirut, e dobbiamo rientrare il più presto possibile in Germania. A Beirut non ci sono voli, il primo volo è un Damasco-Roma fra poche ore. Cerchiamo un taxi per Damasco, si parte, ma le vie in Libano e Siria sono ancora chiuse, nessuno può circolare. La fortuna è dalla nostra parte. Un convoglio di macchine, probabilmente autorizzate, ci passa davanti. Io dico subito al tassista di infilarsi nel convoglio… “prova, prova per favore!” Siamo nel convoglio. Arriviamo all‘aeroporto di Damasco ma l‘imbarco per Roma è stato appena chiuso. Riesco a convincere il personale dell‘aeroporto a riaprire l‘imbarco acquistando due biglietti First-Class per Roma, per me e per il corrispondente. Scoprirò dopo che l‘imbarco era stato riaperto non per noi ma per un ministro siriano che volava verso Roma ed era in ritardo. Mesi dopo ricevo una telefonata, è il figlio di una delle persone anziane che stava per essere massacrata. Mi ha trovato, mi ha cercato ovunque. Mi voleva semplicemente ringraziare. La mia “flashata” aveva salvato la sua famiglia!

L’ex cancelliere tedesco Willy Brandt, nella stanza del suo albergo prima dell’incontro con il presidente americano Nixon

Jay, quali sono le differenze tra il reportage ieri ed oggi?

Le differenze tra “ieri e oggi“ sono enormi. È difficile fare un confronto, come tutte le cose ci sono aspetti positivi e negativi. Dal punto di vista tecnologico lo sviluppo rimane interessante. Dal punto di vista lavorativo l‘evoluzione è stata molto negativa. Per Stern lavoravano 24 fotografi, oggi zero. Ma non è solo un problema di Stern. Noi fortunatamente avevamo „budget“ sufficienti per lavorare. Non esagero quando dico che alcuni reportage ci venivano pagati diverse migliaia di marchi tedeschi. “Oggi” il fotografo ufficiale è una figura scomparsa, solo Freelancer. Noi non avevamo nulla di tecnologico, non avevamo internet, telefonini per comunicare, cartine per avvicinarci, non conoscevamo nulla o quasi nulla del territorio, bisognava improvvisare. Cercavamo con il tempo di costruire solide relazioni che sarebbero potute essere utili per nuovi reportage. Inoltre ad ogni reportage dovevo trasportare con me un centinaio di rullini, oggi con 2 carte di memoria hai subito 2000 scatti. Noi poi dovevano arrivare ad Amburgo nella redazione, lo stress di sviluppare i rullini velocemente, stampare le foto, scegliere il tutto, catalogare. Oggi con internet in un paio di minuti la foto è già in redazione, due minuti più tardi è pubblicata. Un altro aspetto da non sottovalutare, „ieri“ il fotografo rappresentava una persona neutrale e forse anche da proteggere, da qualunque parte fotografasse. Oggi questa certezza non esiste più! I nostri reportage erano più difficili dal punto di vista logistico-realizzativo ma forse più semplici dal punto di vista delle relazioni. Si „entrava“ forse con meno difficoltà, tuttavia i rischi rimanevano.

Fotografo, ma sempre con un‘attenzione particolare al sociale…

Bambini in Tibet

I miei occhi hanno visto tanto, non possiamo e non dobbiamo rimanere insensibili di fronte a certe situazioni drammatiche. Due episodi, diversi tra loro ed a distanza di anni uno dall‘altro, che rivelano l‘importanza del nostro lavoro ma anche la necessità di andare oltre la fotografia. Nell‘anno 1978 in uno dei miei numerosi reportage nel Tibet, scoprii l‘esistenza di un campo profughi, a 3.500 m di altitudine, dove vivevano in condizioni terribili circa 1.500 bambini, orfani tibetani. Con Stern iniziammo subito una campagna di raccolta fondi per salvare questi orfani. Dopo poche settimane Stern aveva raccolto circa 16 milioni di marchi. Rimanemmo senza parole, sorpresi, sbalorditi dal successo di quest‘azione di solidarietà. Nell‘India del nord, riuscimmo a costruire 15 scuole, un centro medico, fornimmo medicinali, vestiti e altro materiale e alla fine non solo per gli orfani tibetani. Il secondo, ero appena ritornato dall‘ex Jugoslavia in guerra e Stern aveva pubblicato il mio reportage sulla situazione disastrosa dei bambini e delle donne in quell‘area. Un giorno mi chiama la segretaria di Klaus Kinkel, allora Ministro degli Esteri, e mi chiede “Signor Ullal, abbiamo visto il suo reportage su Stern, quella è veramente la situazione nella ex Jugoslavia?“ Risposi… Sinceramente la situazione è peggiore di quello che lei può vedere anzi è talmente grave che non sarei in grado di descrivergliela. Alcuni giorni dopo la Germania inviò tre treni in una zona della ex-Jugoslavia, furono riempiti con 15.000 profughi e trasportati in salvo in Germania.

Il tuo primo libro ha per titolo: “Uno ha solo sette vite“

Esatto è il titolo del mio libro. In India si da molta importanza ai veggenti e un veggente mi aveva detto che avrei avuto 7 vite. Si le ho avute queste sette vite! Il libro è una raccolta di reportage da me prodotti con i commenti dei corrispondenti che mi hanno accompagnato in questi reportage. Anche qui un racconto, simpatico. Faccio girare la bozza del libro presso diverse case editrici, saranno state massimo sei. Mi rispondono tutte interessate. Una casa editrice di Monaco di Baviera mi chiama, la donna al telefono mi conferma che è super interessata alla pubblicazione del libro, ma pone una condizione. Il libro dovrà essere pubblicato ma senza il reportage sulla comunità di Bhagwan a Poona. Insiste, garantendomi la pubblicazione, ma ripete che le fotografie della comunità di Bhagwan devono essere eliminate. Anch‘io insisto, il libro deve essere pubblicato senza tagli. La cosa mi insospettisce e inizio a indagare. Dopo mesi scoprirò che la donna della casa editrice che mi aveva contattato è la stessa donna ritratta al centro della foto dal titolo “Libertà per il corpo“ con la descrizione… Quello che a primo colpo sembra un‘orgia in realtà è una terapia ad Ahsram… la liberazione dai complessi sessuali….“ Circa 22 anni prima attorno all‘anno 1978 questa donna di Monaco era stata un‘adepta della comunità di Bhagwan nella città Poona e ora si ritrovava nel mio libro. È rimasta per sempre nel mio libro.

Insomma, credi molto agli indovini ed ai veggenti indiani…

Veramente mio padre desiderava vedermi chirurgo ed era convinto che lo sarei diventato! Purtroppo non aveva capito appieno la profezia di un veggente che lui consultava spesso, questa diceva di me: “Questo bambino girerà il mondo con un piccolo strumento e diventerà famoso“.

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