Nella foto: Romain Rolland. Foto di ©Agence de presse Meurisse - Gallica, Gemeinfrei

In tempi di guerra, sta emergendo dal silenzio culturale che ci affligge un nome quasi dimenticato malgrado gli fosse assegnato un premio Nobel nel 1915, ma proprio perciò a lui consegnato

Parliamo di Romain Rolland (1866-1944), scrittore e drammaturgo francese. Un tributo all’elevato idealismo della sua vastissima produzione letteraria, dedicata alla ricerca e all’amore per la verità, opere in cui ha acutamente decritto i diversi tipi di esistenza umana (dalla motivazione). Personaggio all’epoca famosissimo per il suo pacifismo ironico, già nel 1906 aveva scritto un lunghissimo romanzo, Jean-Christophe, basato su un musicista tedesco, Jean-Christophe Krafft, integrato in Francia che interpretava in funzione pedagogica una possibile coesistenza pacifica fra Francia e Germania, due nazioni che andranno in guerra fra qualche anno dopo decenni di diffidenze e rancori. Già in quello stesso anno del Nobel, primo anno di quella guerra europea, Rolland arrivò in Svizzera, terra promessa per esuli come Hesse, Zweig e Busoni, punto nodale di molti artisti scioccati da quella guerra.

E qui pubblicò sul Journal de Genève ben 16 articoli che poi riunirà col nome suggestivo Al di sopra delle parti, un titolo dibattuto e a volte sopravalutato e attaccato da altri intellettuali coevi, o superficiali o legati a concezioni nazionaliste e guerrafondaie. Due su tutti, non per caso anche premi Nobel, come Gerhart Hauptmann, romanziere e tragediografo (premio Nobel nel 1912) e perfino Thomas Mann (altro premio nobel nel 1929). Ma chi lo prese di mira fu però con massima violenza uno dei più importanti detrattori del Capitano Dreyfuss, simbolo della codarda letteratura francese, vale a dire il capofila degli intellettuali conservatori che di quel capitano fecero strage, come la faranno Laval e Maurras accanto ai nazisti invasori della Francia, tutti a caccia di ebrei che daranno il peggio di loro collaborando con la Gestapo nel raduno al velodromo di Parigi il 16 e 17 luglio del 1942 (evento narrato di recente dal film Vento di Primavera).

Stiamo parlando di Maurice Barres (1862-1923), antisemita di spicco e colpevolista di Dreyfuss, credendolo traditore non con prove, ma perché e solo perché ebreo, come ebbe egli a dire, manifestando così uno spirito autoritario razzista, propagandista insigne della guerra antigermanica, ispiratore, poi respinto, di Maritain e Mauriac. Barres rimproverò a Rolland proprio quello stare al di sopra delle Parti e che a suo parere fuggiva dallo scontro come un vile, non concependo chi non crede all’azione viva e vitale, fra il buonista e l’ebreo errante, vero e sottile nemico del popolo. Eppure a leggere i 16 articoli di Rolland – ripubblicati dalla Fabbri editori nel 1965, nella collana i premi Nobel per la letteratura, nel volume dedicato a Romain Rolland – l’intellettuale pacifista non era affatto al di fuori: forse in una classica torre d’avorio sul modello del Torquato Tasso del Goethe; ma piuttosto un giudice della questione, rivolto a delimitare il contesto, con imparzialità di pensiero. Capire le ragioni di una guerra al fine di trovare un punto di incontro, né rinnegando l’identità nazionale, né cedendo all’eventuale aggressività dell’avversario, mai considerato un uomo da uccidere.

E’ una visione ironica ereditata dall’agostinismo cristiano, una unione spirituale e un universalismo etico derivatogli dall’ultimo pensiero di Goethe. Tanto che sottoscrive la dichiarazione di indipendenza dello spirito, che Eucken aveva proposto agli inizi del secolo e che pure nel 1908 aveva meritato un Nobel per la letteratura. Bertrand Russell, Benedetto Croce e Stefan Zweig – suo fedele discepolo che gli dedicherà una apologia biografica come quella di Senofonte per Socrate – ma anche un altro connazionale, Henri Barbusse (1873-1935), un comunista di ferro che promosse, accanto ad Anatole France, un movimento di scrittori internazionalisti che attrassero Rolland per lo spirito pacifista, pur se di sinistra estrema. Rolland si contrappose invece alla scuola sciovinista che purtroppo influenzò la politica punitiva antitedesca a Versailles nel 1919, dimenticando quella pietà dei vinti che avrebbe spento il revanscismo tedesco degli anni di Weimar e che scatenerà invece – come disse Keynes – una seconda guerra mondiale proprio in conseguenza di quella falsa pace. Hesse, poi, gli fu amico fin dal 1914, ne accettò pienamente il messaggio e con lui attuò un accordo franco- tedesco per accogliere in Svizzera i feriti prigionieri di guerra. Inoltre i due provvidero a raccogliere libri e riviste – e qui entrarono in contatto proprio col movimento di Barbusse – di carattere pacifista, rilessero Tolstoj e pubblicarono il giovane Gandhi su una loro rivista bilingue diffusa fra tutte le parti belligeranti ( il c.d. Verlag der Bücherzentrale für Deutsche Kriegsgefangene).

Ma in concreto come deve comportarsi l’intellettuale in tempo di guerra? Non corre il rischio di parteggiare per una posizione, che gli sembra in buona fede la più giusta e la più equa? E’ il caso di Gerhart Hauptmann (1862-1946), poeta e drammaturgo polacco naturalizzato tedesco, di poco prima a Rolland insignito del premio nobel (1912) e del pari – come si legge nella motivazione – riconosciuto soprattutto per la sua produzione fruttuosa, varia e particolare nel campo dell’arte drammatica (possiamo leggere il suo capolavoro teatrale I tessitori della Slesia nella predetta collana dei premi Nobel a cura della Fabbri Editori del 1965: e per l’opera completa ci permettiamo di rinviare al Nostro Gerhart Hauptmann, un versatile Capitano drammaturgo pubblicato sul Ghiselli – blog del 21.12.2022). Questi aveva scritto al precedente Nobel del 1911 – il belga saggista e drammaturgo Maurice Maeterlinck – che la tremenda distruzione di Lovanio, operata nella rapida marcia tedesca in Belgio verso Parigi fra il 4 agosto e il settembre 1914, non era un atto di barbarie, perché non erano stati uccisi donne e bambini; ma erano state bruciate solo opere d’arte. Socialisti e scienziati, Principi e operai… combattono con piena coscienza per un nobile fine nazionale, per i beni interiori che servono, al pari di quelli esteriori, al progresso e all’ascesa dell’umanità.

Furibondo per la pochezza della difesa e commosso delle parole di Maeterlinck, Rolland non solo riprese Hauptmann perché aveva osato criticare un popolo che si difende, al pari dei tedeschi nel 1813 avevano resistito a Napoleone; ma anche considerava i tedeschi degli Attila perché le opere d’arte distrutte – per esempio, la biblioteca dell’Università Cattolica di Lovanio – avevano avuto per effetto lo sviluppo della civiltà mondiale. Di qui, l’appello accorato al collega tedesco: Vi scongiuro e Vi intimo a Voi e all’élite intellettuale tedesca di protestare con la massima energia contro quel delitto che tutti vi coinvolge… Siate figli di Goethe, non nipoti di Attila! Rolland alla fine gli chiese un gesto di scusa, se non di perdono. Poco più di un mese dopo arrivò la risposta del collega: la sua firma sul c.d. manifesto dei 93 intellettuali volta a giustificare e a negare i crimini di guerra avvenuti in Belgio (4.10.1914, la protesta del Rolland era del 2 di settembre).

Di più: Thomas Mann, a quasi 40 anni, ormai non idoneo al servizio militare, si gettò a capofitto nella propaganda nazionalista, pubblicando nel 1915 il saggio storico Federico e la Grande coalizione (ora in italiano, ed. Treves, Milano, 2006) e poi il poderoso studio Considerazioni di un impolitico (prima ed. 1918 e poi in italiano si veda l’edizione di M. Marianelli per Adelpi, 1977), dove si prodiga nel difendere la campagna aggressiva tedesca. In particolare, Mann qui notoriamente si profuse sul carattere mitico e romantico della Kultur tedesca, richiamando lo spirito vitalistico di Novalis e Nietzsche e anticipando la cultura della battaglia classica omerica di Jünger. Neppure lo schermo di Goethe è sufficiente a smorzare l’interpretazione del Rolland, lo spirito di pace cosmopolitica del Vate di Weimar, il concetto di universalità che deriva dall’ottimismo di Kant, cioé quello che aveva ereditato dalla pace dei sensi raggiunta nella maturità e l’amore per gli altri popoli come per il nostro, era stato sufficiente reprimere il senso di identità del popolo tedesco accerchiato da popoli corrotti e privi di ardore inumano.

Mann osò rifiutare la doppiezza naturale del tedesco buono e del tedesco cattivo, anzi negò una Germania classica weimeriana e una Germania prussiana intollerante e guerrafondaia. Come non vedere che Federico e Bismarck sono della stessa pasta di Kant e Goethe? L’unità spirituale del tedesco è la lettura pedagogica di Mann che non può accettare il taglio netto dell’agostiniano Rolland e invece richiama la concezione umana del fedele di Lutero, vale a dire la grande natura tedesca, su cui Mann insiste fino al 1949, quando a Francoforte ribadirà, nel bicentenario della nascita di Goethe, la convivenza nel popolo tedesco di materia e spirito, un intreccio di beni e di mali sovrapposti e metabolizzati nell’uomo tedesco e riflessi nella peculiarità della lingua. Esempio di tale realtà era per Mann il Doktor Faustus, protagonista del suo più problematico romanzo appena edito, nella figura del prof. Adrian Leverkühn. Qui si riproponeva la tragedia della Germania appena uscita dalla sua catastrofe. Posizioni inconciliabili, perché l’inno identitario alla Kultur di Mann superava quella civilitation che pretenderebbe per Rolland la riduzione dell’Uomo totale alla bellezza del mondo. Kultur che però giustificava la follia dell’autenticità, come direbbe Heidegger.

Forse il maggiore interprete italiano di Rolland, Norberto Bobbio, ci pone un punto di mediazione Nel 1955, nel saggio Politica e cultura, il nostro filosofo disegna nettamente il compito dell’intellettuale nel fare sintesi fra tutte le prospettive, sia del politico interventista, che del pensatore astratto legato a valori universali. Proprio lo sguardo totale del mondo lo fa fuori della mischia. E quindi al politico attuale va rivolta oggi questa semplice domanda: è parziale o completa la scelta pacifista nella guerra russo-ucraina e nella eterna battaglia israelo – palestinese? Come ci si può limitare alla semplice dialettica aggredito ed aggressore senza studiare le ragioni storiche del conflitto?