Nella foto da sx: Paolo Ferri, Tommaso Ghidini. Foto di ©Daniele Messina

Intervista con il prof. Tommaso Ghidini

„Il peso sulla Luna è la metà della metà“ cantava Modugno (per più esattezza scientifica, è un sesto, però così non fa rima). Come sia davvero la vita umana nello spazio e su altri pianeti è stato l’argomento di un incontro organizzato dal Consolato Generale di Francoforte con il prof. Tommaso Ghidini, direttore della Divisione Strutture, Meccanismi e Materiali dell’Ente Spaziale Europeo ESA-ESTEC nonché coordinatore del Programma Europeo per lo Sviluppo della Stampa a 3D e portavoce ufficiale dell’ESA, ed in più autore d’un libro divulgativo „Homo Caelestis“. Al termine della sua discussione pubblica con il prof. Paolo Ferri, direttore emerito dell’ESA-ESOC di Darmstadt, egli ha gentilmente acconsentito a rispondere alle nostre domande.

Nella nuova corsa alla Luna molte cose sono differenti dalla prima corsa, mezzo secolo fa. Secondo Lei, quali sono le differenze principali?

Vi sono molte differenze. Oggi stiamo rivivendo un momento storico come quello, perché stiamo tornando sulla Luna; la differenza è che nel ‘69 siamo andati sulla Luna per esserci, stavolta ci andiamo per rimanerci. Questo è uno dei grandi cambiamenti di paradigma. Nel ‘69 c’era una grandissima pressione geopolitica, un conflitto aperto tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti; l’URSS aveva messo in orbita il primo uomo, e sembrava una vittoria assoluta perché anche gli U.S.A. si preparavano al balzo fuori dell’atmosfera, ed i russi li avevano sorpresi con il volo di Jury Gagarin, ma anche con la prima attività extraveicolare. Sembrava proprio che stessero vincendo loro. L’America, a questo punto, ha dovuto fare una chiamata ancora più ambiziosa: quella di metter piede su di un altro corpo celeste. C’è un bellissimo discorso del presidente Kennedy che dice: noi vogliamo andare sulla Luna perché sta lì, perché siamo degli esploratori. Il messaggio secondario è che noi siamo pure una potenza politica e tecnologica mondiale, la numero uno. Oggi noi torniamo sulla Luna per una serie di motivi. Il primo è che la Luna è ricca di risorse: metalli preziosi, platino, titanio, e c’è acqua e quindi la possibilità d’insediarsi a lungo termine. La Luna ci offre possibilità scientifiche notevoli: se impiantiamo dei telescopi possiamo fare osservazioni di altissima qualità, perché non c’è il filtro dell’atmosfera. Possiamo sviluppare tecnologie testandole in un ambiente planetario rappresentativo senza i rischi della distanza eccessiva; nel caso che ci sia un’emergenza operativa o medica possiamo intervenire alla svelta. Inoltre la Luna ci offre un utilizzo economico-commerciale attraverso la Space Economy, e addirittura turistico. Tutto questo nel ‘69 non avveniva. La Luna si presenta dunque come un corpo celeste estemamente interessante per la specie umana anche perché ci permette di abituarci all’idea che stiamo diventando una specie multiplanetaria, perché da il il balzo successivo è Marte. Probabilmente vi metteremo piede entro la fine degli anni 2030.

Se si possono estrarre materiali pregiati dal suolo lunare, i costi non saranno troppo elevati?

I costi sono naturalmente un aspetto molto importante. Dobbiamo considerare che se in futuro sposteremo la produzione di energia dai combustibili fossili verso l’energia elettrica, questo significa che avremo un problema di dipendenza non più dai combustibili, ma dai materiali. Dei materiali cruciali per l’elettrificazione scarseggeranno: avere la possibilità di estrarli da un altro pianeta o dagli asteroidi, che ne hanno una quantità praticamente infinita, ci danno una risorsa imprescindibile.

Quali sono i principali ostacoli tecnici da superare?

Ce ne sono diversi. Prima di tutto, bisogna arrivarci. Occorre un razzo che non solo abbia la capacità di arrivare sulla Luna, ma anche di farci atterrare. Saturno 5 lo faceva nagli anni ‘60, adesso abbiamo SLS. Poi bisogna rimanerci: il primo aspetto critico è la protezione degli astronauti dalle radiazioni, poi ci vuole la potenza elettrica e la propulsione. Questi sono i tre primari canali tecnologici su cui dobbiamo investire. Dobbiamo disporre di motori in grado di atterrare sulla Luna, dobbiamo poter produrre potenza in modo continuativo, e poi se vogliamo insediarci, dobbiamo essere in grado di costruire la base; e non possiamo trasportare dalle Terra tutti i materiali che ci servono, ma dobbiamo utilizzare quelli reperibili sul posto nella misura più efficace possibile. Nel laboratorio che dirigo abbiamo fatto degli studi molto interessanti. La regolite lunare è una polvere che ne ricopre il suolo -la Luna ne è piena- ed è ricca di alluminio, titanio, silicio e ferro. Estraendo questi elementi -noi l’abbiamo fatto- si produce ossigeno. Quindi la regolite diventa un ideale supporto per l’insediamento umano. Da un lato ci costruiremo il guscio, e quindi la protezione della base, dall’altro ne estrarremo materiali utilissimi per le costruzioni elettroniche, e sarà pure una sorgente di ossigeno. Il cambiamento di paradigma consiste in un approccio circolare, cioè tutte le tecnologie che useremo devono basarsi sia sull’utilizzo del materiale del pianeta, sia nel riciclo sistematico.

Si sente parlare anche di batterie atomiche all’americio…

Sì, questo è un’altro sviluppo molto interessante che stiamo promuovendo, Non si può, secondo me, prescindere dalla potenza nucleare: potenza e riscaldamento, dunque le batterie all’americio, materiale a bassissima radioattività e quindi molto utile, ci permette di creare calore -non dimentichiamo che la Luna è molto fredda,- ed energia elettrica, quindi ci fornisce due fattori cruciali per l’insediamento umano. Il terzo elemento è la propulsione, secondo me dobbiamo pensare alla propulsione nucleare per arrivare, se non sulla Luna, su Marte.

Molta gente si chiede: perché si spendono tanti soldi per le imprese lunari, quando sarebbero necessari per spese più dirette ed urgenti?

È una domanda che a me viene rivolta molto spesso. È una domanda legittima, anche se un po’ sorprendente, perché penso che ormai sia chiaro quanto lo spazio ci aiuta nella vita di tutti i giorni. Se ancora ci sono persone che ne dubitano, per chi lavora nel mio ruolo penso che sia un obbligo morale rispondere nella maniera più esaustiva, perché ci sono 22 governi che ci sostengono con i soldi dei loro contribuenti. Innanzitutto: lo spazio ci offre risposte a domande fondamentali: da dove veniamo, dove stiamo andando come specie, se c’è vita in altri pianeti, se può insediarsi la vita altrove, come sopravvivere al nostro tempo: tutte queste domande trovano risposta nello spazio. Detto questo, nel realizzare missioni spaziali, noi facciamo un tale sforzo tecnologico, che come ritorno abbiamo tecnologie che non avremmo mai nei tempi normali. Noi teniamo monitorati sotto controllo tutti i 50 parametri che riguardano il Clima Change e non potremmo farlo se non da quell’osservatorio ideale che è lo spazio. Immagini il mondo senza internet. Pensi alla navigazione satellitare, a tutti i mezzi che ci hanno permesso di continuare a lavorare durante la pandemia, di mandare i nostri figli a lezione e a mantenere relazioni personali: tutto questo che prendiamo per scontato ci viene dai sistemi satellitari. Quindi non è vero che lo spazio è così distante, esso è fortemente presente nel nostro quotidiano. In più c’è un impatto indiretto che ci viene dallo sviluppo tecnologico. Pensi alla TAC: è un brevetto sviluppato nella Missione Apollo. Le ottiche che usiamo per misurare la vegetazione sulla Terra vengono utilizzate per i microscopi avanzati che trovano il tumore della pelle molto più velocemente di tutte le altre ottiche possibili. Pensi che i brevetti della fotocamera digitale quando siamo atterrati sulla cometa sono gli stessi della fotocamera sui nostri telefonini. In più, la più grave minaccia per l’esistenza del genere umano e di tutte le specie viventi sul pianeta, ci viene dallo spazio: un asteroide superiore a 1 km di diametro che dovesse colpire la Terra, cancellerebbe qualsiasi forma di vita. Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, abbiamo colpito e deviato la triettoria di un asteroide in una missione congiunta della NASA e dell’ERA.

Nel Suo libro „Homo Caelestis“ lei descrive un nuovo tipo di umanità adattata a muoversi in ambiente spaziale. Quali saranno le sue caratteristiche peculiari?

Innanzitutto: noi non siamo una specie nata per stare nello spazio, ma per stare in un pianeta che ci accoglie in un’atmosfera di ossigeno con una temperatura gradevole, che ci offre acqua da bere e protezione contro la radiazione cosmica. Noi prendiamo un organismo così fatto e lo portiamo in un ambiente che lo bombarda di radiazioni, che non gli offre ossigeno da respirare, che gli fa indebolire le ossa, gli atrofizza i muscoli, gli indebolisce il cuore: è chiaro che questa è una sfida che sembra insormontabile. E invece l’esplorazione spaziale, ancora una volta, ci regala tecnologie straordinarie per proteggerci da tutti questi fattori. Noi però ci vogliamo andare nello spazio, malgrado questi rischi, e nel fare questo acquisiremo una nuova coscienza di noi: questo è uno dei regali più grandi che lo spazio ci fa. Uscendo dal nostro pianeta noi possiamo guardarlo dall’esterno e renderci conto di quanto sia bello e sia importante proteggerlo. Questa è la priorità: non andiamo nello spazio perché diamo la Terra per spacciata, al contrario, per capire ancora meglio quanto la Terra sia importante. Nello stesso tempo però esplorare nuovi pianeti ci permette di cambiare come specie, acquisendo per la prima volta nella storia dell’Homo Sapiens la capacità di lasciare il nostro mondo -siamo l’unica specie che lo ha fatto- ma siamo addirittura l’unica specie che può diventare multiplanetaria. Questo è straordinario, non tanto da un punto di vista ingegneristico, ma ancora di più un atto filosofico. Cioè, dobbiamo volerlo. Parlo in una prospettiva di molti secoli, sia chiaro. Questa è la grandezza del Sapiens: può ambire ad evolversi diventando una specie multiplanetaria. Pensi che la missione Apollo 8 ci ha dato una foto a colori straordinaria, iconica, del nostro pianeta fotografato dalla Luna, che poi è diventata simbolo del movimento ecologista, di quello per la fame nel mondo, ecc. perché ci ha dato l’immagine della bellezza, ma anche della fragilità della Terra da una prospettiva che non avevamo mai avuto.

Allora, se un giorno arrivasse un Beethoven spaziale, potrebbe comporci una „sonata al chiaro di Terra“…

Esatto, bellissimo.

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