Nella foto: Michele Montorfano

Abbiamo incontrato Michele Montorfano filosofo esperto di cinema per voi, per conoscere gli addii nel cinema

Il professor Arnone, impegnato nel Il cinema come vaso di Pandora: quali sono gli aspetti negativi?

Come nel mito di Pandora, il cinema nel suo inizio è un immaginario di desideri, di suggerimenti, di allusioni e di ambiguità. È la forza d’irruzione di un sentimento e la distanza di una possibilità. Quando il vaso viene aperto, così come il cinema scoperto, assistiamo all’attimo dell’incontro, il bagliore dell’istante che scompare rapidamente trascinato dalla sua stessa fuga. Nel mito, questo scintillio dell’istante che spalanca l’incontro con l’inaudito avviene per mezzo della curiosità. La curiosità che forza le regole, che spalanca il prodigioso e il rischio costringendoci a varcare la soglia tra il conosciuto del presente e l’incognita del futuro. Questo vedere, e questo farsi vedere è sperimentare il potere fortuito con cui l’ignoto costringe a scontrarci. Nel mito, come nel cinema, l’assetto problematico non è nella dicotomia male-bene, ma nel linguaggio delle conseguenze e nella difficoltà a comprendere l’esperienza.

La duplicità dei mondi: cinema e realtà. Come conviverci?

C’è una relazione di famiglia tra cinema e realtà: le immagini sono il gioco delle immagini del nostro mondo, così come le storie, i turbamenti, le felicità, il tempo che il cinema utilizza e sigla nelle proprie storie sono il tempo vorticoso dei nostri sentimenti. La convivenza accade con l’immagine che è guardata e ci ri-guarda nell’atto di una seduzione infinita. La convivenza è quindi un esperire, un fare esperienza. E l’esperienza è la prolissità di un’assenza indefinitamente significante.

Il cinema: luogo fisico contro luogo ideale. Che rapporti ci sono?

Il luogo fisico del cinema è il cinematografo, la struttura architettonica che ne presenzia l’esistenza e ne permette la visione. Il luogo ideale, ossia il mondo dello spirito e del pensiero, è ciò che si impegna a rispondere nel sentimento. La sala invecchierà, cadrà in disuso, verrà restaurata o cambierà destinazione così come i nostri sentimenti vivranno sulla bocca dell’amato o nel silenzio isolato dell’inedia, ci seguiranno nei giorni o si disperderanno, muteranno, si rivolteranno contro di noi nell’agile e raggiante mobilità della coscienza in cui, come disse Blanchot, la pienezza si coglie come vuoto e coglie il vuoto come l’infinito eccesso del caos.

Perché innamorarsi della ferita dell’addio?

È vero, l’addio è lo scandalo della ferita sul corpo inerme, distrugge ciò che investe, getta nella polvere l’avvenire marchiandolo sotto il segno della confusione e della disperazione, rivela la nostra nudità minacciata da una violenza radicale rendendoci vittime di una smisurata insicurezza. L’addio confonde il tempo, sostituisce il lungo con il corto, il sopra con il sotto, il bene con il male, la discordia con la pace ma nell’imbroglio della confusione, in balia della febbre dell’esagerazione e nel dramma della disperazione, è l’insieme di tutti i possibili. Così come l’artista mette ordine alla confusione del suo inizio, l’addio rivendica sopra il proprio disordine l’iniziativa radicale di un cominciamento: che tutto accada, questa è la formula dell’addio.

Come sono stati scelti i film che vengono descritti? Cosa li accomuna?

Rappresentano una parte dei film che ho amato nella mia vita, scelti affinché coprissero un arco di tempo sufficientemente ampio da simboleggiare il nostro camminare nella storia, il nostro ricordare. E ricordare un film non è solo rivivere la lontananza del sentimento provato durante la proiezione ma anche il riportare in vita ciò che abbiamo fatto in quel tempo lontano, sperduto. Il ricordo di chi ci ha accompagnato, le lacrime condivise nel buio della sala, i sorrisi silenziosi e complici alla fine della proiezione, le mani che abbiamo cercato in un momento di tenerezza o stretto nella paura assoluta. Tutti i film che ho scelto sono il frutto di questa intimità e con questa confidenza ho tentato di svelare il racconto segreto che ognuno di essi porta con sé; ad esempio la bellezza di ciò che non si può essere e il tramonto di ciò che si può avere in “Drive” di Nicolas Refn; l’ambiguità e la capitolazione sospetta della verità in “Casablanca” di Michael Curtiz; o la violenza in “Elephant” di Gus Van Sant raccontata senza spettacolarità, esaurendo la possibilità di questa furia barbara che colpisce chi non le va a genio, che ignora il mondo che essa stessa violenta.

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