Foto: , Andrea Grillo ©Archivio personale.

Donne e Chiesa. Intervista al teologo Andrea Grillo

Il Sinodo dei vescovi a Roma ha riflettuto anche su donne e ministeri nella Chiesa. Di diaconato per le donne se ne parla ormai da anni. Di sacerdozio femminile alcune Chiese locali chiedono di poterne parlare. Noi lo facciamo con il teologo Andrea Grillo argomentando di impedimenti. L’intervista è lunga e la seconda parte verrà pubblicata il mese prossimo. Questa toccherà il tema dell’autorità della Chiesa di cambiare, di che cosa vuol dire fedeltà al Vangelo, del rapporto fra Tradizione della Chiesa e di riforma del Codice di diritto canonico. La versione integrale dell’intervista è su www.delegazione-mci.de

Perché la questione delle donne nella Chiesa e per la Chiesa è fondamentale?

Ha a che fare con il modo di porsi della Chiesa in rapporto alla realtà. Mi spiego, la questione delle donne nella Chiesa è fondamentale perché va a toccare uno dei due assetti su cui la Chiesa si è costruita per 1.800 anni e cioè l’assetto basato sulle differenze, per cui la differenza fondamentale è quella fra Dio e l’uomo (piano teologico). Questa differenza sul piano civile diventa quella tra chierici e laici e infine tra uomini e donne sul piano naturale. Le tre cose sono state vissute come interscambiabili, ovvero si difende la differenza fra Dio e l’uomo se si difende la società fatta di chierici e laici, dove gli uomini fanno delle cose e le donne delle altre. Questa è un’evidenza che attraversa tutta la storia fino al Moderno. L’impatto con il mondo moderno mette in gioco la differenza di Dio, la differenza dei chierici e la differenza dei maschi. Il rischio è di pensare che ci sia Vangelo, fede e chiesa solo se si tiene la società della differenza. Non tutta la Chiesa ha pensato così ma larga parte del magistero per molti decenni ha ceduto alla tentazione di pensare che era possibile difendere la Chiesa solo difendendo il principio della societas inaequalis di cui parla tutto l’’800 e che è ancora presente nelle parole di Pio X all’inizio del Novecento e che per ultimo viene rievocata da Pio XII. Il Concilio Vaticano II cambia registro, permangono resistenze, non così aperte sul piano chierici laici, mentre sul piano della differenza maschile/femminile si ripete ancora che fa parte della divina costituzione della Chiesa che le donne non ricevano il ministero sacerdotale. Se ne fa diventare una questione di essenza della Chiesa, senza più spiegare perché, secondo una logica di autorità senza teologia, limitandosi a dire che così ha voluto Gesù. Queste sono forme di spiegazione tra l’integralismo e il fondamentalismo che lasciano di stucco prima di tutto gli esegeti, perché quello che Gesù fa nella scelta degli apostoli è molto problematico se viene letto come univoco (letterale): i Dodici apostoli sono uomini maschi, maschi circoncisi e circoncisi galilei. La questione è dove ci si ferma nelle differenze importanti? Fin dalla prima generazione delle comunità cristiane si è capito che essere galilei non era normativo. Sul fatto che fossero circoncisi si è discusso un po’ di più, ma che siano solo maschi non è stato oggetto di domanda fino a che la società non è cambiata. Nel momento in cui si è scoperto che le donne possono avere tanta autorità quanto gli uomini, fuori dalla Chiesa e anche nella Chiesa, affrontare il problema significa affrontare il rapporto con la realtà.

Autorità delle donne nello spazio pubblico e come si rapporta la Chiesa con la realtà, sono due importanti coordinate per la questione donne e ministero ordinato. Nel suo libro Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine, Lei pone la questione in questi termini: possiamo escludere le donne dal ministero? Così facendo Lei opera un rovesciamento della domanda che finora è stata: perché le donne debbano essere incluse nell’ordine. Questo rovesciamento, sostiene, non è altro che una domanda secondo tradizione. Può spiegare questo passaggio?

Il passaggio è doppio. Il primo è scoprire che già nel Medioevo giuristi, anche se in modo minoritario, tendono a dire che il sacerdozio maschile fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine. Secondo passaggio: la grande tradizione che comincia nel 1200 e che finisce nel secolo scorso, pone la questione sugli impedimenti all’ordinazione. E fa un elenco di impedimenti giuridici che purtroppo comincia sempre dal sesso femminile e comprende, l’essere schiavi, l’essere condannati per omicidio, l’essere disabili e figli naturali. Questi impedimenti si basano sul criterio della padronanza di sé o della “capacità”. Ora, lungo la tradizione è del tutto comprensibile che alcuni di questi impedimenti rimangano. Ma il fatto che il sesso femminile sia motivo di impedimento è legato a un giudizio che si dà sulla donna di carattere antropologico, biologico, di carattere creaturale e gli antichi allegavano questi motivi alla giustificazione dell’impedimento. Oggi nessuno di questi motivi sta più in piedi, per cui la strategia che si utilizza a partire dai primi del Novecento è di dire che fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine il sesso maschile. Ma questo è un modo di nascondere la questione, che invece bisogna affrontare in modo più classico e rispondere alla domanda: ”quali sono gli impedimenti all’ordinazione?” e provare a giustificare perché il sesso femminile potrebbe essere un impedimento. Non essendoci più ragioni per considerarlo un impedimento è una condizione che rende possibile l’ordinazione. Quindi il fatto che ci sia una distinzione, maschi e femmine, tra i criteri di accesso al ministero ordinato, è un frutto dell’antropologia, di una sociologia che è superata da due secoli e che formalmente Giovanni XXIII in Pacem in terris (1963) ritiene superata, quando dice che uno dei segni dei tempi è l’entrata della donna nella vita pubblica. Questa analisi che Giovanni XXIII fa chiaramente su un piano generale vale, come dice con molta finezza, per una parte della terra. Certo, con tutte le distinzioni anche oggi, per gran parte del mondo il sesso femminile è associato all’autorità e non più dissociato all’autorità. Questo crea nella Chiesa lo spazio per riconoscere anche il soggetto femminile come soggetto di ordinazione.

Ma come la mettiamo allora con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994) nella quale Giovanni Paolo II aveva liquidato la questione del sacerdozio femminile come definitivamente chiusa per mancanza di potere della Chiesa?

Ordinatio Sacerdotalis lavora su due livelli. Il primo livello si basa su quanto già detto in Inter Insigniores (1976) e in Mulieris Dignitatem (1988) dicendo che è un dato acquisito della tradizione. Sicuramente è in larghissima parte un dato acquisito della tradizione, con qualche eccezione per il mondo antico, dove appunto ci sono riti di ordinazione, si parla di donne ordinate, quindi non è vero che non c’è mai stato. Viene meno questa logica per cui il Papa sembra constatare in tutta la storia dall’anno 0 al 1994 che sempre, da tutti e ovunque sia stato chiaro che le donne non devono essere ordinate. Questo è stato chiaro nel passato ma il problema è che non è più chiaro oggi. Con l’avvento della società tardo moderna non è più un’evidenza il fatto che le donne debbano essere escluse dall’ordinazione sacerdotale. Secondo fatto: quella di Ordinatio sacerdotalis è un’assunzione di autorità importante, ma non è massima, né incontestabile e ha reso necessarie interpretazioni perché il documento non era chiaro. Si è costruito questo ragionamento: il documento in sé non è infallibile ma attesta una prassi infallibile della Chiesa. Ma fra la prassi, che non è infallibile assolutamente, in quanto non assolutamente uniforme ovunque, e il documento non infallibile, esiste lo spazio per un dibattito che consideri quel giudizio, un giudizio contestuato e contingente dal punto di vista storico. L’Ordinatio sacerdotalis attendeva una spiegazione teologica a posteriori che trent’anni dopo non c’è stata e che quindi rende possibile, in generale, e io dico necessaria una revisione.

Allora si opera una sintesi eccessiva dicendo che in realtà non esiste nessun argomento teologico che possa sostenere l’esclusione delle donne dal ministero ordinato?

Diciamo che non si esagera anche perché se fosse esistito nel ’94 già lo avrebbero usato. Chi prova a usarlo è Paolo VI, o meglio la Congregazione della dottrina della fede dell’epoca, usando l’argomento della somiglianza sulla base di un testo di san Tommaso che dice: “deve esserci somiglianza tra il Signore e il ministro che lo rappresenta”. San Tommaso non si riferisce alla conformazione sessuale, ma parla della libertà, cioè della padronanza di sé, in riferimento allo schiavo. Il ragionamento è che lo schiavo non può essere ministro di Dio perché non ha la rassomiglianza con l’autorità del Signore. La donna, per Tommaso, è per natura non padrona di sé e quindi inferiore allo schiavo, che può essere emancipato, mentre la donna non si può emancipare dalla propria condizione. Tommaso considerava l’essere donna un impedimento per l’ordinazione a causa della comprensione della donna incapace di esercitare l’autorità. Questo non è altro che il pregiudizio di Aristotele: san Tommaso pensa ad Aristotele quando dice che ogni donna è un uomo mancato, ed è chiaro che con questo ragionamento una donna non può fare il prete o il diacono o il vescovo perché chi ha accesso all’ordine deve avere padronanza di sé, quindi essere un uomo maschio, di sana e robusta costituzione, che non abbia ucciso nessuno, che sia nato da un padre e una madre certi, che non sia disabile e che non sia minore.

Alla radice dell’esclusione delle donne dal ministero ordinato c’è la visione antropologica dell’inferiorità della donna, oggi superata; tuttavia ci sono anche alla base resistenze, quando si dice che non siamo pronti. Che fare allora?

La prudenza pastorale vuole che tutte le novità non entrino come un camion lanciato al 300 all’ora dentro la comune esperienza, per cui penso che sia ragionevole arrivare gradualmente a una rinuncia alla riserva maschile. Di fatto questa gradualità è già cominciata perché la riserva maschile è caduta su accolitato e lettorato, che è una cosa da poco ma corrisponde al vecchio cursus honorum (il percorso sequenziale) per entrare nel sacerdozio. Su accolitato e lettorato Paolo VI diceva che per venerabile tradizione si riserva ai maschi, Francesco dice che è tradizione “venerabile e non veneranda” ossia si può venerare ma non è necessario farlo e quindi noi possiamo farne a meno. Francesco utilizza un argomento di evidenza, in cui non ha bisogno di giustificare che per il ministero istituito di lettorato, accolitato e catechista cade la riserva maschile ed è aperto a tutti i battezzati, maschi e femmine che siano. Ciò ha un alto valore simbolico.

Credo che questo ci debba portare, gradualmente, magari passando inizialmente per l’apertura al diaconato, a togliere la riserva maschile. I medievali dicevano la salvezza è riservata a tutti, maschi e femmine, ma solo i maschi esercitano il ministero; credo che si possa arrivare a dire che la salvezza è destinata a tutti, e che, alle dovute condizioni di competenza, di vocazione che valgono per i maschi e per le femmine, ci possa essere una vera vocazione universale al ministero. Credo sia normale arrivare lì, superare le comprensibili forme di resistenza di una Chiesa che ha vissuto in una società in cui alcuni luoghi autorevoli sono stati fino a poco tempo fa chiusi alle donne. A volte noi dimentichiamo che la riserva maschile valeva fino al 1997 per la Filarmonica di Vienna, per la Filarmonica di Berlino, quindi un po’ di memoria storica ci aiuta. (fine prima parte)