A dirlo stavolta non sono i sindacati di parte, ma quello delle imprese, Confindustria, che nel suo rapporto autunnale, presentato qualche giorno fa nella Capitale, indica che “la flessione del PIL in Italia è stata la più marcata, con l’eccezione del Giappone; la risalita è la più lenta, dopo quella della Spagna. Insomma,  il Paese è tra i peggiori performer e non è riuscito a recuperare, anzi al contrario, il gap di crescita con le principali economie sviluppate”.
Stando a quanto sostengono gli economisti, il peggio della crisi avrebbe toccato il picco nel 2009. La ripresa è quindi iniziata alla fine di quell’anno, ma solo per chi è riuscito a resistere con riforme strutturali e cavalcando quel mercato delle economie emergenti capitanato dalla Cina. L’Italia non è tra questi, e pensare che deve il 27% del suo PIL proprio all’entrate dell’export. Rimane comunque l’unica forza che gioca al rialzo in questo particolare momento, grazie anche al recupero straordinario della Germania che è fortunatamente il primo mercato di destinazione del made in italy. Dall’altra parte, però, il nostro Paese paga “carenze strutturali” e “assenza di riforme” che gli hanno concesso una ripresa così debole da non poterla definire tale. Secondo Confindustria, “il Paese non si mostra in grado di innovare, adottare nuove tecnologie e migliorare l’organizzazione dell’insieme dei fattori della produzione”. Al riguardo, ci sono poi due tendenze contrastanti. Se siamo a sorpresa diventati esportatori netti di tecnologia, anche se in misura molto contenuta, dall’altra investiamo troppo poco in ricerca e sviluppo.
Pesa, poi, sull’economia il dato stagnante dei consumi delle famiglie. L’aumento nel 2010 dello 0,4% e la previsione dello 0,7% per il 2011 è troppo basso per recuperare la perdita del biennio 2008-2009.  Le famiglie non acquistano più e cercano invece di risparmiare. Non hanno fiducia in una ripresa e sono ulteriormente scoraggiate dal calo dei loro redditi, ancora -0,1% nel 2010, e dalle difficoltà occupazionali radicate nel Paese.
Al riguardo, gi specialisti parlano di necessità di rilancio del mercato del lavoro. Ma anche in questo caso, le misure sbagliate e l’inadeguatezza strutturale italiane del periodo crisi non indicano una ripresa. I tagli agli organici, la diminuzione degli orari di lavoro, l’utilizzo massiccio della Cassa Integrazione “hanno ritardato l’impatto negativo della crisi dell’occupazione, – spiegano i tecnici di Confindustria – ma stanno simmetricamente rinviando quello positivo del riavvio dell’attività nella ripresa, dato che le imprese possono accrescere la produzione allungando gli orari”. Inoltre, la re-integrazione dei cassintegrati, degli inattivi e dei cosiddetti “disoccupati scoraggiati”, cioè quelli che non hanno più cercato lavoro perché convinti di non trovarlo, insieme con la crescita della popolazione in età lavorativa che entra nel mercato del lavoro, “contribuiranno ad alimentare il persistere di un elevato stock di disoccupati”.
In Italia, coloro che non hanno un impiego da dodici mesi o più hanno superato il milione a inizio 2010. Il tasso di disoccupazione è dell’8,7% nel 2010 e salirà al 9,3% nel 2011. Sono i primi effetti di una crisi che ha sconvolto l’Occidente. Gli USA segnavano ad agosto un tasso di disoccupazione del 9,3%, mentre  la zona euro del 10% da marzo.  K.O. la Spagna, dove la disoccupazione continua a salire (20,3% della forza lavoro a luglio), mentre la Germania è riuscita a contenere  l’aumento (6,9% a luglio rispetto al 7,7% a giugno 2009) tramite l’espansione del kurzarbeit, “un programma di riduzione degli orari – si spiega nel rapporto – che opera in maniera simile ai contratti di solidarietà e che coinvolge oltre un milione e mezzo di lavoratori al picco di maggio 2009”.
A preoccupare in modo particolare gli economisti è soprattutto l’incremento della durata della disoccupazione, che rischia di diventare strutturale perché provoca “impoverimento del capitale umano e fenomeni di scoraggiamento”. Ma anche in questo caso la Germania ha retto bene, “riuscendo ad evitare l’aumento dello stock di disoccupati di lungo periodo: a dicembre 2009, tre quarti dei lavoratori in kurzabeit  avevano lavorato a tempo ridotto per almeno sei mesi”.
Altro elemento sconcertante nel quadro italiano è il sommerso. Secondo le stime di Confindustria, molto più ottimistiche rispetto a quelle dell’Istat, l’evasione avrebbe raggiunto quota oltre 125 miliardi di euro nel giugno 2010, con un peso sul PIL del 12,7% nel 2008 e 15,9% nel 2009. Secondo l’istituto di ricerca, invece, il sommerso avrebbe superato nel 2009 ben il 20% sul PIL. Il settore più colpito è il terziario, mentre nell’amministrazione il fenomeno è ovviamente assente. A farne le spese sono i contribuenti che al contrario assolvono totalmente agli obblighi fiscali. L’effetto di tale evasione si ripercuote, infatti, sul carico fiscale, che nel 2008 ha toccato il 52% circa del reddito. “È possibile – dice ancora la Confederazione dell’industria italiana – che la recente espansione del sommerso sia stata determinata anche dall’abolizione nel 2008 di buona parte delle norme antievasione introdotte negli anni precedenti e parzialmente ripristinate con il decreto 78/2010”.
In questo quadro desolante, sono i giovani italiani a passarsela peggio. Secondo il rapporto, nella fascia tra  15 e i 24 i disoccupati sono cresciuti del 34,1%, quelli in cerca da almeno sei mesi del 45,5%. I laureati sono pochi, l’offerta universitaria non corrisponde alla domanda e oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano. Altro che fuga di cervelli!