La clandestinità non può essere reato penale, perché questo principio è incompatibile con la direttiva europea sui rimpatri. Quindi, quella legge inserita dal governo nel  pacchetto sicurezza del 2009 non può essere applicata.
È quanto ha  stabilito una sentenza della Corte di giustizia europea, che ha accolto il ricorso di  un immigrato irregolare algerino, condannato dalla Corte di Appello di Trento ad un anno di carcere con l’accusa di clandestinità.
La storia inizia nel 2004, quando un decreto ne stabilisce l’espulsione.  El Dridi – questo il nome – avrebbe dovuto lasciare il territorio italiano entro cinque giorni, ma non l’ha fatto, e quindi è stato condannato ad un anno di reclusione dal Tribunale di Trento. In questi casi, però, la direttiva non prevede la detenzione in carcere, ma solo delle  misure detentive precauzionali volte esclusivamente ad evitare che l’irregolare possa fuggire.
Oltretutto, queste possono essere applicate solo in casi estremi, per periodi brevissimi e mai negli stessi luoghi in cui sono detenuti i comuni carcerati. Insomma, l’’immigrato clandestino non può essere messo in carcere. La legge italiana, invece, prevedeva una pena fino a cinque anni di reclusione per quegli stranieri senza permesso di soggiorno che, nonostante l’espulsione, rimanevano comunque in Paese.
Considerando la clandestinità un reato e la detenzione una pena, la legge italiana travisava quindi lo stesso impianto di principio della direttiva, mentre, oggi, la clandestinità torna ad essere reato amministrativo. Così, tutti coloro che adesso si trovano in carcere dovranno essere liberati, così come tutti i processi in corso dovranno concludersi con formule assolutorie, cosa che in realtà già in parte avveniva, visto che molte procure stavano già privilegiavano la legislazione europea a quella italiana.
L’intervento della Corte è servito a chiarire ai Paesi che non possono applicare regole più severe rispetto a quelle previste dalla direttiva europea in materia. Anche perché la norma comunitaria può essere ritenuta "self executiing", cioè trova immediata applicazione negli Stati anche senza un formale recepimento. E in questo senso, l’Italia è tra quei dei 12 Paesi che ancora oggi non l’hanno neppure recepita.