Fino a che punto i soldati della Wehrmacht, ovvero le forze armate regolari tedesche, furono coinvolti nei crimini del regime hitleriano? In che misura parteciparono alla pianificazione e alla realizzazione di atti di guerra contro la popolazione civile nonché alla deportazione e allo sterminio di milioni di ebrei? Domande inquietanti, per nulla oziose e tuttora molto discusse nell’opinione pubblica tedesca.
Una quindicina d’anni fa una mostra itinerante intitolata „Guerra di sterminio. I crimini della Wehrmacht“ suscitò un putiferio di reazioni e persino manifestazioni di indignata protesta. Adesso arriva un libro, appena pubblicato dalla casa editrice Fischer di Francoforte, che pare destinato a riaprire le polemiche dando un colpo forse definitivo a quel mito dell’innocenza della Wehrmacht che ha nutrito nel Dopoguerra fino quasi ad oggi larghi settori dell’opinione pubblica.
È chiaro che salvaguardare l’onore della Wehrmacht attribuendo la responsabilità storica di tutte le nefandezze più crudeli alle SS, alla Gestapo e agli altri corpi speciali del Terzo Reich, è stato un presupposto essenziale per poter ricostituire nel territorio della Bundesrepublik un nuovo esercito tedesco che svolgesse un ruolo chiave nell’ambito della Nato. Ma era un presupposto storicamente falso. Che la verità sia un’altra emerge con chiarezza dal volume intitolato Soldaten, con l’aggiunta di un sottotitolo che in traduzione italiana suona Protocolli del combattere, dell’uccidere e del morire.
L’hanno scritto lo storico Sönke Neitzel dell’università di Magonza e lo psicologo Harald Welzer, i quali hanno studiato a fondo le trascrizioni dattiloscritte dei colloqui tra soldati tedeschi finiti prigionieri degli inglesi e degli americani e rinchiusi rispettivamente nel campo di Trent Park e di Fort Hunt. Parlavano senza sapere di essere ascoltati e dalle loro parole si evince senza ombra di dubbio che i vertici della Wehrmacht erano perfettamente a conoscenza di quanto accadeva nei lager, ivi comprese le esecuzioni di massa, le fosse comuni, l’uso del Zyklon B, gli stupri sulle donne e gli esperimenti su cavie umane. E collaboravano attivamente, senza porsi troppe domande di carattere etico, a far funzionare la macchina dello sterminio.
La lettura di quei dialoghi è a tratti sconvolgente: per esempio laddove un pilota racconta ad un collega di quando bombardò la città polacca di Poznan: «All’inizio la cosa non mi piaceva, il terzo giorno mi era indifferente, il quarto giorno mi divertivo. Era un piacere dare la caccia con la mitragliatrice ai singoli soldati nei campi e farli secchi con un paio di colpi». Un tenente riferisce compiaciuto di avere «sparato a tutto, e ucciso anche donne e bambini nella carrozzina». Si parla anche dell’occupazione in Italia. Un caporal maggiore spiega che in Italia, in ogni luogo in cui giungeva il suo battaglione, il tenente gli raccomandava sempre: «Ammazzate un po’ di italiani, diciamo una ventina, così stiamo tranquilli e quelli non ci danno fastidio.
Alla fine esclamava, “crepate, maiali!”, tu nemmeno immagini l’odio che aveva per gli italiani». I racconti di quei soldati, che per lo più erano normali militari di leva o di carriera, sono gonfi di spavalderia e di una perversa inclinazione al male, ben al di là di quello che può essere il semplice “dovere” in tempo di guerra. Dimostrano come l’ideologia hitleriana fosse penetrata profondamente in tutti i livelli dell’esercito e non soltanto nei fanatici militanti con l’uniforme delle SS. Quei soldati sterminavano senza pietà la popolazione civile, e nel farlo provavano piacere e divertimento. Con la lettura di queste pagine si sfalda definitivamente l’immagine di una Wehrmacht che combatteva in modo spietato, ma fondamentalmente “corretto” e “pulito”.
E per l’ennesima volta la Germania è chiamata a fare i conti con l’ipoteca del suo passato più livido: i soldati che al tempo di Hitler combatterono nelle file della Wehrmacht furono infatti ben 18 milioni, e non c’è quasi famiglia tedesca che non abbia avuto un proprio membro nell’esercito.