Uno dei ruoli più amati nel panorama lirico e interpretato, tra gli altri anche dalla Tebaldi e Monserrat Caballè, che non partì proprio sotto una buona stella. Infatti quando Giacomo Puccini vide per la prima volta il dramma d Victorien Sardou, LA TOSCA, contattò immediatamente Giulio Ricordi per sottoporgli la sua idea di musicarla. Sardou, sebbene non fosse entusiasta dell’idea, acconsentì e concesse la trasposizione musicale. Tuttavia non a Puccini, bensì ad Alberto Franchetti. Quest’ultimo, tuttavia, dopo appena alcuni mesi, rinunciò all’opera e così Ricordi conferì nel 1895 a Puccini il tanto desiderato incarico. Anche Giuseppe Verdi confidò al suo biografo che, se non fosse stato per la sua età avanzata, gli sarebbe piaciuto essere lui a musicare la Tosca. Chissà come avrebbe reagito Puccini a questa concorrenza.

Nel 1896 venne chiamato anche Giuseppe Giacosa a collaborare con Luigi Illica alla stesura del libretto. CI vollero ben 3 anni e diverse discussioni per concludere l’opera nel mese d’ottobre del 1899 e poi metterla in scena il 14 gennaio del 1900 al Teatro Costanzi di Roma. La prima non andò proprio liscia però: a causa del ritardo di alcuni spettatori il direttore d’orchestra fu costretto ad interrompere l’esecuzione e a ricominciare da capo. La stampa non sembrò, almeno all’inizio, apprezzare il lavoro di Puccini non considerandolo molto in linea con i due lavori precedenti. Eppure la storia avvincente dimostrò ben presto la sua validità: a soli 3 anni dalla sua messa in scena venne messe in scena mei migliori teatri del mondo. All Wiener Staatsoper arrivò “solo” nel 1010 ma da allora ebbe almeno 1.000 rappresentazioni. E oggi, nel XXI secolo, continua a rimanere un’opera attuale, intrigante e fonte di ispirazione. Lucio Dalla, il cantautore scomparso qualche anni fa, nel 2003 portò in scena la sua opera moderna “Tosca-Amore disperato” ispirata al melodramma di Puccini con un libretto molto fedele arricchito di scene di ballo e dei costumi di Giorgio Armani.

Lo Staatstheater di Saarbrücken aveva scelto questa opera per la riapertura del teatro (dopo alcuni lavori di ristrutturazione) nel novembre 2013. Il successo e l’amore del pubblico per questo triangolo pucciniano ha portato la direzione a riproporlo per quattro volte nel mese di gennaio 2015, con un cast leggermente diverso, sotto la direzione musicale di Nicholas Milton e con Gaetano Franzese come direttore di scena. La messa in scena di Dagmar Schlingmann presenta allo spettatore, fin dall’inizio, l’essere ingombrante del personaggio di Tosca e della sua fine. Con un filmato proiettato su una tela, si vede una donna, Tosca, camminare, vagare nell’infinito e poi cadere nel vuoto. Nulla è lasciato al mistero: ci sarà la morte della protagonista e ciò viene ricordato in continuazione, quasi ad esorcizzare questo passaggio. E la Tosca proiettata non è addolorata né disperata, tantomeno mostra paura o dolore: è già ad uno stato successivo, già in un mondo oltreterreno in cui avrà la possibilità di ricongiungersi al suo Cavaradossi in un mondo lontano dai sotterfugi. I vestiti fluttuanti, gli effetti ottici di tromb d’oeil non mettono ansia, anzi: fanno percepire questo passaggio come dovuto, necessario ed aspettato.

Anche la scenografia di Sabine Mader è un spostarsi tra la realtà e la fantasia; non antiteticamente tuttavia, bensì come convivenza automatica e quasi simbiotica. L’affresco della Attavanti in chiesa ripresentato in tre dimensioni e passaggi, sottolineando la necessità dell’artista di avere diverse possibilità di interpretazione; la stanza arazzata i Scarpia con un tavolo adibito metà a tavolo da pranzo e metà a scrivania; Castel San Angelo e i suoi bastioni, con due livelli di gioco ed interpretazione. Inge Medert ha optato per costumi atemporali: abiti a giacca, gonne lunghe o vestiti da Cocktail attillati: quasi a voler significare che la caratterizzazione del tempo non è importante. Allora cosa è importante? Eros e thanatos: è e lo rimarrà. L’amore non corrisposto di Scarpia che fa di tutto per far sparire il rivale, Cavaradossi dalla faccia della terra. Eppure, nonostante questo suo desiderio di supremazia e volontà assoluta di controllo, abbassa la guardia e non riesce, seppur grande stratega, ad intuire le intenzioni di Tosca che lo accoltella. Tosca è un’omicida, eppure il pubblico non la condanna mai perché soffre con lei e vede il suo gesto come atto d’amore disperato e, in vista della promessa non mantenuta di Scarpia di salvare Cavaradossi, come atto giustificato e dovuto. La pecca di Tosca? Avere, in fin dei conti, aver avuto fiducia in una persona senza scrupoli che vive per il solo appagamento personale.

Come resistere quando Eszter Sümegi (Tosca) canta la romanza E vissi d’arte o Mickael Spadaccini (Cavaradossi) interpreta E lucevan le stelle? Inevitabilmente gli altri personaggi passano in secondo piano: qui si tratta di Amore, con la A maiuscola. Abbiamo incontrato per voi Mickael, il giovane tenore che ha calcato già diverse scene internazionali e che per lo Staatstheater di Saarbrücken ha interpretato i ruoli principali in opere di Nino Rota, Berlioz e Offenbach. Nato in Belgio da genitori italiani (padre di Perugia e madre di Chieti) è cresciuto a Charleroi con il desiderio di diventare pilota d’aereo o medico, finché non scopre l’amore reciproco per la musica. Inizia la carriera molto giovane, a 21 anni, studiando con Bergonzi, Freni e Martinucci.

Quale è il tuo rapporto con l’Italia e con le due regioni di provenienza dei tuoi genitori?

Purtroppo, a parte le vacanze, non c’è nulla che mi lega a queste due regioni. Per quanto riguarda l’Italia io la considero il mio paese. Quando mi esibisco sui palchi italiani mi sento a casa mia. Questo per quanto riguarda la mia percezione personale. Per noi Italiani di seconda generazione il concetto di appartenenza è un concetto difficile: in Italia non vengo considerato un italiano e in Belgio non vengo considerato un belga. Sono sempre quasi, diciamo un Europeo. Il mio cuore però è italiano. Da piccolo ho vissuto molto con i miei nonni che erano molto attaccati all’Italia e guardavano molto la TV italiana. Il mio primo approccio con l’Italiano è stato attraverso le trasmissioni della RAI e poi ho continuato i miei studi in Italia. Non è stata, all’inizio, una decisione cosciente di imparare la lingua: ero piuttosto come una spugna che assorbiva quello che ascoltava: l’italiano dalla TV e il dialetto abruzzese francesizzato dei nonni.

Quando è nato l’amore per la musica?

La mia storia è strana. Fino a 16 anni avevo un certo ribrezzo verso la musica: non mi piaceva ascoltare la musica in pubblico e cercavo sempre di sentirla quando non mi vedeva nessuno. Ero un adolescente normale: né bello né brutto, né superintelligente né stupido, né una schiappa né un supersportivo. Questa normalità della mia esistenza la percepivo come deprimente, perché volevo distinguermi. Avevo 17 anni quando ho visto per la prima volta Il flauto magico di Mozart a Charleroi e le l’ho trovato stupendo. Ed è stata la musica che mi ha permesso di distinguermi. Mio padre ascoltava molta musica classica e diverse operette. Una volta, tanto per ridere, ho imitato alcune canzoni di Luis Mariano e Andrea Bocelli e mi sono reso conto dello strumento vocale che avevo. Così da un tipo normale sono diventato un tipo che aveva un certo non so che in più. Da lì è nata la voglia di studiare e di formarmi. Per prima cosa ho partecipato ad un’audizione per entrare nel Conservatorio di Charleroi presentando l’unico pezzo che sapevo veramente bene “Torna a Surriento”. L’audizione è andata benissimo (ho ricevuto gli applausi di tutti gli altri candidati nonché dei maestri) e non ho avuto fatica a trovare un maestro. I miei genitori mi hanno sempre supportato in questa passione perché si sono resi conto di cosa significasse per me. Quando sono stato la prima volta da Bergonzi, non avevo idea di chi fosse. Sapevo solo che le sue lezioni erano molto care e io non potevo permettermele. È stato Bergonzi a richiamarmi per 4 mesi ho avuto lezioni gratuite. Tuttavia non ero preparato al rigore di questa formazione per cui, dopo un po’ mollai perché ero una testa calda. In testa avevo le ragazze e cantare era un bonus che mi serviva a conquistare le donne. Mi sono poi reso conto che, provando una settimana a non cantare, mi sentivo male: mi sono resa conto che la musica era parte della mia vita. Quindi ho ricominciato a studiare e, tre anni, prima che Bergonzi morisse, sono tornato da lui poco prima che morisse e l’ho visto felice per me e la mia carriera. Penso che il suo apprezzamento manifesto sia stato, nel mio subconscio, una delle molle che mi ha fatto andare avanti, perché mi ha fatto capire che la musica ricambiava il mio amore.

A quando risale il tuo “ruolo ufficiale” sul palco?

A 17 anni ero già nel coro dell’Opera di Liegi. Ero contento di trovarmi in scena ma non capivo la portata dell’evento, forse perché ero un corista e facevo quello che mi dicevano. La mia “prima volta” da solista invece è stata a Bessançon in Francia, con l’interpretazione di Pinkteron nella Madama Butterfly. Mi ricordo di essere stato chiamato all’ultimo momento per cui ho dovuto imparare la parte in un mese appena. Considerando poi che non sapevo leggere la musica, il tutto era ancora più complicato. Idem per il palcoscenico: mi sono ritrovato in scena senza aver mai preso lezioni di recitazione. Ma il direttore aveva molta fiducia in me e mi spingeva dicendomi che era l’inizio e che tutti dovevamo passarci. Dopo questo ruolo ho interpretato Don Jose a Cremona e Como ad appena 22 anni. Successivamente sono stato al Teatro Regio di Parma per il Nabucco sotto la direzione di Abbado figlio. Ero tra un cast di stelle che mi hanno accolto molto bene, senza allure di star.

Quale ruolo, che hai interpretato finora ti ha soddisfatto maggiormente a livello di artista?

Ancora non ho dato tutto me stesso in un ruolo, anche se ho sempre dato il massimo. Penso che un artista non riesca a mai a dare tutto se stesso anche perché, dopo ogni ruolo si cambia e si matura per cui cambiano i termini di paragone e di misura. Ho interpretato finora quasi 30 ruoli che sono stati tutti diversi tra di loro. A livello di autori/compositori adoro Rossini e Puccini, mi trovo bene con la musica italiana e meno a mio agio con i compositori tedeschi, perché trovo la lingua difficile. Mi viene facile cantare in francese, ma il repertorio francese è un repertorio leggero. Quando ho una nuova parte, prima mi guardo/ ascolto l’opera, mi leggo il libretto, la tipologia del personaggio e poi si inizia a studiare musicalmente la parte con il pianista o da soli e solo dopo nasce il personaggio, perché solo allora sei in grado di diventare il personaggio anche a livello interpretativo. Ammetto, però, che non mi piacciono messe in scena troppo azzardate di un’opera che ne capovolgono le strutture. Lo vedo come oltraggio l’opera stessa. Ciò non significa che io sia completamente contro le nuove interpretazioni, ma la musica deve essere rispettata. La bravura di un regista si vede nel riuscire a dare un tocco particolare all’opera senza stravolgerne la struttura.

Progetti?
Tanti a Vilnius, Brno, Bordeaux e altre location che ancora non posso svelare. Sarà un bel 2015.