Tutte le lingue sono soggette a scambi e prestiti e così noi italiani finiamo col dire “toilette” e i parlanti di ben 37 lingue si salutano con il nostro “ciao”

Così come ultimamente si è espresso il Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca, prof. Francesco Sabatini, è ora di capire che bisogna usare la nostra e bella amata lingua anziché essere “esterofili”, usando in modo esagerato gli anglicismi. C’è chi le ama e le usa a sproposito, chi invece le odia e ripiega su traduzioni talvolta inesatte. Le parole straniere usate in italiano, il cui nome tecnico è: “forestierismi”, non sono una novità dell’ultimo decennio. Tutte le lingue sono soggette a scambi e prestiti e così noi italiani finiamo col dire “toilette” e i parlanti di ben 37 lingue si salutano con il nostro “ciao”.

Il mondo odierno sempre più globalizzato e internazionale ci porta però a adottare sempre più parole straniere nel nostro dizionario giorno dopo giorno, la maggior parte dei quali sono appunto anglicismi, quindi parole inglesi. Al giorno d’oggi quasi tutti conoscono almeno due lingue e chi non le conosce si dà da fare per imparare almeno l’inglese con l’aiuto di siti e app. Anche senza impegnarci troppo, però, siamo a contatto con parole inglesi tutti i giorni semplicemente accendendo la TV o sfogliando un giornale. E non solo, basti pensare a ciò che ormai non solo da giornalisti ma anche politici vengono utilizzati termini italianizzati continuando, ad esempio, ad affermare l’esistenza dei “Governatori” sull’esempio americano, quando da noi esistono i “Presidenti di regione” e non governatori, come da Costituzione art. 121,122,126. Ed anche se l’inglese è la lingua contemporanea per tutti gli affari politici ed economici internazionali, ciò non toglie che a casa propria si debba parlare con la propria lingua.

I termini tecnici non vengono quindi nemmeno più tradotti in modo da facilitare la comprensione per entrambe le parti. Caratteristica di queste nuove parole è infatti anche l’assenza di una vera traduzione in italiano, o, quando questa c’è, il termine inglese ne indica una specifica sfumatura. Dunque, il “selfie”, ad esempio, tormentone dal 2013 non è un semplice “autoscatto”. L’avvento di Internet e dei social ha dato vita ad un nuovo ricchissimo vocabolario. Molte di queste parole non esistevano prima nel dizionario ed è toccato agli utenti scegliere se usarne una traduzione o tenerle in inglese. L’inglese ha molto spesso vinto, anche perché certe parole tradotte in italiano suonano piuttosto male. Internet si lega anche al concetto di globalizzazione: grazie alla rete ogni giorno abbiamo l’opportunità di leggere contenuti in altre lingue, seguire le tendenze straniere e restare in contatto con i nostri amici all’estero. In questo modo entriamo in contatto con parole straniere che involontariamente adottiamo nel nostro linguaggio e che ci conviene mantenere in inglese per facilità di comunicazione con tutti coloro che incontriamo su internet e non parlano la nostra lingua. Se gli anglicismi pervadono la vita di tutti i giorni, ci sono certi ambiti in cui questi sono più diffusi.

Molti di questi sono ovviamente legati al mondo di internet o delle relazioni internazionali, ma il collegamento non è sempre così evidente. Nel mondo dell’università, perché la ricerca e lo sviluppo in certi campi avvengono principalmente all’estero, vengono adottati tantissimi termini stranieri e un laureato parla molto spesso del suo campo usando un vocabolario specifico in inglese. Il mondo del lavoro delle aziende è sempre più internazionale e ha adottato sempre più termini stranieri. Oggi è più facile sentire in ufficio parole come “brief, call, deadline”, invece di “riunione, telefonata e scadenza”.

Le sfumature di significato sono simili, ma queste parole sono usate strettamente per il lessico lavorativo. Altri termini, come “freelance”, non sono propriamente traducibili e un “Freelancer” deve intendersene di anglicismi per farsi strada nel mondo del lavoro. Dalla fondazione di Facebook, nel 2004, siamo stati inondati di nuovi “social media” e di nuovi termini usati per descrivere le varie funzionalità degli stessi. Aprendo un social qualsiasi quindi conteremo i nostri “follower” e guarderemo la pagina di qualche famoso “influencer”.

I termini da social sono però anche quelli più italianizzati, dando vita a nuove parole che sono un misto di inglese e italiano come “taggare o addare”. Ma “fortuna” vuole che in questo tempo che viviamo in emergenza, e stiamo imparando a convivere con il Covid-19, un nemico terribile ed invisibile che però è praticamente diventato protagonista indiscusso delle nostre giornate e purtroppo chiodo fisso dei nostri pensieri, nella nostra quotidianità si è fatto spazio un vero e proprio nuovo vocabolario collegato al virus e al nostro nuovo modo di vivere; ogni giorno sentiamo rimbombare parole come: “pandemia, quarantena, paziente zero, picco, focolaio, distanziamento sociale, curva di contagio, soggetto asintomatico, ecc.…ecc.…” le sole parole non italiane che si continuano ad usare è: “lockdown” anziché “isolamento, blocco, confinamento, “l’home working e lo smart working” anziché “telelavoro” e “lavoro agile”. Per questi ultimi termini, poi si fa una grande confusione. Smart working e home working non sono sinonimi pur se, nella realtà dei fatti, conducono entrambi al medesimo obiettivo: delocalizzare la postazione di lavoro.

Ma la differenza non è solo nel nome, bensì la rispettiva regolamentazione deriva da fonti diverse con inevitabili caratterizzazioni dell’un tipo rispetto all’altro. Certo è che la smaterializzazione del posto di lavoro fisso inteso come “postazione” e non tanto stabilità del rapporto sarà la nuova era dell’occupazione. Smart working e home working, o meglio lavoro agile e telelavoro per dirla nella lingua madre, sono e saranno gli strumenti ai quali le aziende sempre più guarderanno per organizzare la loro attività contraendo i costi fissi. Per meglio comprendere la diversità formale delle due tipologie di prestazioni lavorative, è necessario addentrarsi nelle rispettive norme costitutive. Purtroppo, per taluni, che le amiamo o le odiamo ormai non si può più vivere senza certe parole nel linguaggio di tutti i giorni, perché mancherebbero degli strumenti comunicativi fondamentali.

Non resta quindi che integrare la nostra lingua con questi nuovi termini e renderli nostri, sigh! magari pronunciandoli in modo tutto italiano, ma per talune comunque evitando di pronunciarle (governatori-lockdown) perché migliori o esatte in italiano.

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