Francesco Ziosi ha mantenuto la promessa. Nella sua intervista al nostro giornale, il responsabile dell’Istituto di Cultura di Monaco alla domanda se fosse pensabile invitare a Monaco i direttori dei grandi musei italiani, tra cui il Museo Egizio di Torino, aveva risposto affermativamente (l’intervista è stata pubblicata nel numero di novembre 2016 ed è disponibile anche online, ndr). E così è stato. Lunedì 13 maggio, Christian Greco, egittologo, dal 2014 direttore del più antico museo egizio del mondo, e del più grande dopo quello di Cairo, ha intrattenuto il pubblico dell’istituto in una interessantissima conferenza-intervista. Greco ha risposto alle domande di Jessica Distefano, dottoranda in egittologia e coptologia della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. I temi trattati sono stati, in particolare, quelli relativi alla gestione del museo, al patrimonio culturale custodito e al rapporto con il pubblico.

Dopo estesi lavori di ristrutturazione e ampliamento il Museo Egizio di Torino ha riaperto nel 2015 con una superficie espositiva più che raddoppiata. Nel 2018 i visitatori sono stati circa 850.000. Dal 2004 l’ente responsabile della gestione è la Fondazione Museo Egizio di Torino. Greco ha rimarcato che, a partire dalla riapertura, il museo non ha più avuto finanziamenti pubblici o privati. “Nel 2018 il bilancio è stato di 12,6 milioni di euro, guadagnati unicamente dal museo con la bigliettazione, con le mostre itineranti e con la vendita dei libri. Con questo bilancio il museo provvede a finanziare i lavori di conservazione della collezione e a pagare gli stipendi ai dipendenti. Questo richiede un’attenta programmazione per evitare licenziamenti. In Europa musei della nostra entità hanno bilanci ben più alti, intorno ai 60 milioni di euro. Il modello «fondazione» permette di lavorare con più efficienza e snellezza rispetto al modello statale perché io posso assumere e licenziare il mio personale, cosa che sarebbe impossibile in una istituzione pubblica. Le assunzioni le farebbe il Ministero per i beni culturali, e le categorie assunte sarebbero solo quelle di archeologi, architetti e storici dell’arte, ma non quella degli egittologi. L’attuale modello permette snellezza amministrativa, autonomia nel redigere le programmazioni pluriennali e nell’indire gare localmente”.

Greco ha poi parlato dei progetti in cantiere. “La sfida di tutti i musei egizi è quella di poter realizzare, nel XXI secolo, il «museo egizio impossibile». La maggior parte delle collezioni che abbiamo in Europa si sono formate nel corso del XIX secolo e hanno portato a uno smembramento di contesti unitari. Esemplare è il caso della scoperta di una tomba tebana, appartenente a Djehutymes (prete imbalsamatore, ndr) e Iside (divinità egizia, ndr), fatta nel 1819 dall’archeologo piemontese Antonio Lebolo. La tomba risale all’età ramesside, ma ha anche una occupazione molto successiva, risalente al periodo imperiale romano di Traiano e Adriano. Non riuscendo a vendere la tomba interamente a un unico collezionista, Lebolo la frazionò e la vendette a diversi collezionisti. Risultato: Torino ha l’occupazione di età ramesside con i sarcofagi di Thutmose (dinastia di faraoni, ndr) e Iside e con una piccola mummia di 4 anni, appartenente a un bambino di nome Petamenofi, relativa all’occupazione di età romana. La zia di Petamenofi, Sensaos, si trova in Olanda nel museo egizio di Leiden; i nonni si trovano a Londra nel British Museum; i genitori si trovano al Louvre; i fratelli e i cugini si trovano nel museo egizio di Berlino. Questo è un esempio di cosa sono i «disiecta membra», espressione che non rappresenta soltanto una collezione sparsa, ma separata dal suo contesto archeologico originale. La tomba è tuttora oggetto di scavi e nel 2021 il Museo Egizio di Torino parteciperà a una mostra che metterà insieme parti delle collezioni nel loro contesto archeologico originale. Inoltre, grazie alla digitalizzazione, verrà realizzato il «museo egizio impossibile», riparando i danni fatti nel XIX secolo. Torino, Leiden, Berlino, Londra e Parigi, cinque grandi collezioni europee e la madre di tutti i musei, quello di Piazza Tahrir al Cairo, uniti nel condividere informazioni sull’immensa collezione archeologica egizia”.

La storia del Museo Egizio di Torino è legata indissolubilmente alla figura di Ernesto Schiaparelli, che ne fu direttore dal 1894 al 1928. Jessica Distefano ha accomunato lo sforzo innovativo di Christian Greco a quello di Schiaparelli. “L’unica cosa che ho in comune con lui è essere diventato direttore a 39 anni. Ernesto Schiaparelli è stato il più grande direttore che il museo egizio ha avuto e mai potrà avere, per il semplice fatto che ha portato 35.000 reperti al museo. La sua lungimiranza è stata quella di portare la ricerca al centro dell’attività del museo. Durante il suo viaggio in Egitto del 1896, arrivato a Luxor, cominciò una serie di acquisti, tra cui importanti sarcofagi, che però non lo soddisfecero perché erano svincolati dal contesto originale. Gli scavi iniziati nel 1903 e condotti fino al 1927 hanno allargato tantissimo la collezione. Attualmente stiamo studiando i manoscritti e l’immenso archivio lasciato da Schiaparelli. In particolare stiamo digitalizzando 300.000 documenti tra cui 14.000 lastre fotografiche inedite che metteremo presto online”.

Greco ha poi parlato della sua idea di museo come ente di ricerca. “Un museo senza ricerca non esiste. Un museo senza ricerca muore. Molti ritengono che i musei devono continuare a comprare pezzi per la propria collezione. Io ho deciso di non farlo. Il museo egizio potrà tornare a comprare solo dopo aver completato la ricerca e lo studio sulla sua attuale collezione. La ricchezza di un museo non si accresce solo dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo, ovvero comprendendo meglio le collezioni che custodisce. Questo è possibile solo facendo ricerca”. Ma la ricerca ha bisogno di competenze e dunque di personale.“All’inizio del mio mandato, in una riunione del consiglio d’amministrazione mi fu proposto di licenziare il personale scientifico. Risposi: «cominciate da me». Sono arrivato che avevo 13 dipendenti. In cinque anni li ho portati a 51. Alla scadenza del mio mandato (previsto per il 2024, ndr) vorrei fossero 200. Ogni anno investo gli avanzi di bilancio in borse di dottorato. Io non vedo alcuna differenza tra il museo e una università. La ricerca va condotta attraverso gli scavi archeologici, ridando contesto alla collezione. Ma anche sugli archivi, sulla cultura materiale disponibile, gran parte non ancora pubblicata, come i 26.000 frammenti di papiro provenienti da Deir el-Medina che costituiscono uno degli archivi amministrativi più importanti dell’antichità. Questa ricerca siamo riusciti a finanziarla grazie al progetto «Crossing Boundaries» in collaborazione con le università di Basilea e di Liegi e ci permetterà di assumere due dottorandi e due post-dottorandi.

Jessica Distefano ha poi chiesto a Greco di parlare del rapporto del museo con il territorio. “Ho preso servizio il 28 aprile 2014. Il giorno prima in un’intervista al Sole 24ore ho parlato delle cose che volevo fare, tra cui quella di portare il museo «fuori dal museo». Un museo non è una torre d’avorio separata dal mondo in cui esso è inserito, non esiste per diritto divino. Ogni giorno deve conquistarsi spazio nel territorio a cui appartiene. Ciò vuol dire guardare alla comunità scientifica, agli studiosi, agli studenti universitari, alla popolazione scolastica delle scuole di ogni ordine e grado, alla cittadinanza nel suo complesso, ai ricchi come ai più bisognosi. Un museo appartiene a tutti. Una delle prime iniziative che abbiamo fatto è stata quella di portare il museo nel dipartimento pediatrico oncologico dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Andare a parlare a dei ragazzini che avevano appena avuto la chemioterapia è stato un momento di sollievo per i ragazzi e di grande crescita per me e per il mio personale”. Stessa cosa è successa con i detenuti del carcere di Torino ai quali Greco ha regalato una serie di lezioni che li hanno appassionati tanto da far diventare la tomba di Kha (architetto al servizio del faraone Amenofi III, ndr) oggetto del programma di maturità. E poi ci sono loro, i nuovi italiani, gli immigrati. “Solo in Val Padana abbiamo 1,1 milioni di egiziani. L’Italia ha l’onore e l’onere di custodire una collezione che italiana non è, ma appartiene al mondo. Il mio desiderio è che il museo egizio diventi la più grande ambasciata dell’Egitto fuori dall’Egitto, un luogo in cui gli egiziani possano sentirsi a casa, in cui poter percepire la gratitudine dell’Italia nei confronti del loro paese”.

E non poteva mancare, a questo punto, la domanda sullo scontro, amplificato dai media, tra Christian Greco e Giorgia Meloni, che nel febbraio 2018 lo aveva accusato di avere un atteggiamento di favore nei confronti dei cittadini arabi. “L’anno scorso sono stato attaccato pesantemente da un membro del parlamento e segretario di partito che ha protestato per gli sconti offerti con l’iniziativa: «fortunato chi parla arabo»”. Dopo quell’episodio, tutti, dalla CNN, al Pais, al New York Times, volevano parlare con lui. “Ma io ho parlato con nessuno. Parlerei volentieri con loro, ma non di queste polemiche, bensì di quello che siamo e che facciamo. A seguito di quell’iniziativa è venuta una famiglia di egiziani, in Italia da 25 anni. Genitori della mia età con i loro figli. Il marito autista, la moglie donna di servizio. Non sapevano che esistesse il museo egizio. Erano vestiti benissimo, lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo. Sono entrati, dovevano starci un’ora e sono rimasti sei ore. Alla fine ci hanno detto che non si aspettavano di vedere che gli italiani facessero la fila per venire a conoscere la cultura del loro paese, la cultura «di noi egiziani che in Italia siamo gli ultimi». Questa famiglia e la felicità e la fierezza che ho visto nei loro occhi ci fa capire quanto c’è da fare nell’immigrazione. Questa e tante altre iniziative, al di là delle critiche, sono state attuate per dire che il museo esiste. Per dire:«venite, siete i benvenuti»”.

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