È la terza edizione di Mare Nostrum. Come è nato questo progetto/programma?

Mare Nostrum è nato, se non ricordo male, una quindicina di anni fa. Il primo disco, Mare Nostrum 1, lo abbiamo pubblicato nel 2007, dopo un paio di anni di lavoro. Un amico agente svizzero ha avuto l’idea di metterci assieme. Richard era, per me e Jan, il punto in comune, visto che, entrambi, vi avevamo suonato assieme, ma, tutti e tre assieme sarebbe stata la prima volta. Così abbiamo suonato alcuni concerti e poi siamo andati in studio di registrazione in Italia, con un idea molto precisa: quella di fare 3 dischi, registrati in ognuno dei paesi di provenienza dei membri, ossia Italia, Svezia e Francia. Il brano Mare Nostrum di Jan Lundgren è diventato il brano di apertura e, di conseguenza, quello che ha dato il nome al disco. A quel punto ci siamo trovati costretti a dare anche un nome al nostro progetto che, fino ad allora, si chiamava semplicemente Galliano-Fresu-Lundgreen, e la scelta è caduta, anche lì, su Mare Nostrum. Dopo un paio di anni abbiamo fatto il secondo disco. Ci siamo posti la domanda se chiamare il disco in una modalità diversa, ma poi abbiamo optato per la continuità musicale, essendo, i dischi legati da un filo conduttore: la nostra musica cameristica, riflessiva, cara ad ognuno di noi abbinata al compito musicale dato in ogni disco. In effetti, in ogni disco, ci sono tre brani non nostri, che provengono da un’altra tradizione musicale. Ognuno di noi, infatti, sceglie un brano di un compositore che ama particolarmente. Galliano ha sempre portato brani di derivazione francese e Jan brani di tradizione svedese. Io vario: nel primo disco ho scelto un brano di Tom Jobim – Eu não existo sem você, nel secondo un brano di Claudio Monteverdi e, nel terzo, un brano della tradizione napoletana, I’ te vurria vasà.

In che cosa differisce questo progetto dagli altri tuoi, diversi, progetti di collaborazione musicale?

I miei progetti, in effetti, sono molto diversi tra loro. Questo è un progetto che punta ad una grandissima qualità di ascolto, con dei toni delicati e sottili, in cui nessuno cerca di prevalere sull’altro. Creiamo una musica molto intima ma che, al contempo, ha una grande forza comunicativa.

Cos’è che ti attira nei progetti musicali?

La molla che fa scattare tutto è l’origine di un rapporto umano, il trovarsi bene con una o più persone. Se questo non c’è, indipendentemente da tutto, il progetto non mi interessa. Quando c’è intesa si parte con un’idea di progetto. Può andare bene, ma può, poi, anche non funzionare, cosa che è successa, seppure raramente. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, funziona, perché si crea un’alchimia umana. Lo confermano anche i progetti che sono attivi da oltre 35 anni.

35 anni di carriera: ci sono stati momenti che ti hanno messo alla prova?

Mi sento tutt’ora messo alla prova. Essendo molto curioso per natura, mi lancio spesso in progetto di cui non so molto o in progetti che sono al di là delle mie attuali possibilità. Nel 2019, per esempio sono usciti due dischi molto impegnativi: il lavoro sul Laudario di Cortona (essendo del 1200 è davvero molto lontana dal jazz) e la Norma di Bellini in cui io interpreto la voce. Queste sono grandi sfide perché vanno al di là delle mie possibilità- Ogni giorno mi spingo oltre le mie possibilità e quello che so fare, per andare in territori che non conosco. Non mi accontento e vado in luoghi nuovi, difficili, perché bisogna ripartire da capo. È una prova perenne per me. Quando si è in un progetto conosciuto si naviga in automatico, mentre quando si lavora con un progetto nuovo, si sta un po’ in campana. L’interessante è che, quando si trova una via, quel materiale diventa tuo e fa sì che il bagaglio diventi parte di te.

Ultima domanda: Tu e il jazz…

Io ho conosciuto questa musica alla fine degli anni 70, dopo aver suonato per diversi anni musica leggera. Mi ha subito affascinato per la parte estetica e il colore del suono, ma anche per le storie che si portava dietro: era la musica dei perdenti, dei neri che, pur se famosissimi, dovevano entrare, nei posti in cui suonavano, dalle cucine. Allora mi sono detto che se il jazz è la metafora di una vita, io voglio fare jazz. Jazz è la musica degli incontri, della curiosità e, quindi, mi sono trovato a sposare questa musica. Mi ha arricchito permettendomi di viaggiare, conoscere il mondo, parlare diverse lingue, vedere le cose belle e le cose brutte della vita e di farne l’epicentro delle mie scoperte che vanno ben oltre la musica. Il jazz, oggi, fa talmente parte della mia vita che non mi pongo più il problema se quello che faccio sia jazz o meno. Sono io jazz dentro, nel senso che c’è una filosofia che permea ed è parte di me. Mi sento però di dire che, oggi, faccio musica in cui c’è una nota prepotente/predominante di musica jazz. Come diceva Duke Ellington, esistono solo due tipo di musica. Quella buona e l’altra. L’importante è che quella che si faccia sia buona.

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