Tre anni dopo Fuocammare di Gianfranco Rosi, sette anni dopo Cesare deve morire dei fratelli Taviani, la giuria della Berlinale incorona nuovamente un film italiano. Questa volta l’orso non è quello d’oro, ma quello d’argento per la miglior sceneggiatura: un premio comunque di enorme prestigio che onora gli autori del film e tutto il cinema italiano.

Ma andiamo con ordine. Era l’ultimo festival diretto da Dieter Koslich ed è stata una kermesse mediamente al di sotto della media. Tanti film selezionati non meritavano la vetrina di Berlino e si auspica che il nuovo direttore artistico, il torinese Carlo Chatrian, sappia rinnovare i criteri di scelta e rinnovare il programma. Non basta la tematica politicamente corretta per fare di una pellicola un prodotto artistico degno di un festival come quello berlinese.

Va anche detto che qualche bel film lo si è visto, a partire da quello incoronato con l’Orso d’oro, il franco-israeliano Synonymes di Nadav Lapid, centrato sulle peripezie di un giovane israeliano partito per Parigi dopo aver svolto il servizio militare in Israele, animato dall’intento di cancellare le proprie radici e identità. Splendido anche So Long, My Son del regista cinese Wang Xiaoshuai, che attraverso il dramma di una famiglia operaia ripercorre le vicende di un trentennio di storia cinese. E ottimamente girato pure Grace a Dieu di Francois Ozon, su alcuni casi di pedofilia accaduti nella chiesa francese.

L’Italia può ritenersi soddisfatta per l’Orso d’argento andato a La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, tratto dal libro omonimo di Roberto Saviano che ne è anche sceneggiatore insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci. «Dedico questo premio alle Ong che salvano le vite nel Mediterraneo» ha dichiarato Saviano a caldo durante la cerimonia di premiazione a che ha concluso il Festival. Giovannesi dal canto suo ha dedicato il premio all’Italia «nella speranza che l’arte, la cultura e la formazione tornino ad essere una priorità per il nostro paese».

Ma che film è La paranza dei bambini (che in Germania uscirà col titolo Piranhas. Der Clan der Kinder) e di cosa parla? “Paranza” è una parola che indica innanzi tutto una rete da pesca trainata da barche per catturare una gran quantità di pesci piccoli, e dunque una specifica tecnica di pesca. Ma nel lessico della malavita campana indica un clan di affiliati alla Camorra. Il film racconta infatti la parabola di un gruppo di adolescenti che nel quartiere napoletano Rione sanità si prende armi in pugno soldi, vestiti, potere, sgominando, almeno temporaneamente, le vecchie cosche criminali che fino allora aveva controllato la zona e imposto il pizzo ai negozianti. Il problema è che questo clan di ragazzini quindicenni realizza al suo interno le stesse identiche dinamiche dei clan adulti, se possibile con una violenza perfino peggiore. Per certi aspetti si potrebbe dire che La paranza dei bambini è un racconto di formazione criminale, ed è anche un racconto emozionante e potente sul “fascino” del male. Non un film sulla camorra, dunque, non l’ennesimo episodio colmo di violenza, e sparatorie, bensì un film sulla perdita di innocenza da parte di un gruppo di ragazzini indotti a passare dal gioco alla guerra nel giro di pochissimo tempo.

Per saperne di più abbiano raccolto alcune dichiarazione di Claudio Giovannesi, regista romano quarantenne, autore di film quali La casa sulle nuvole (2009), Alì ha gli occhi azzurri (2012), Fiore (2016) e di alcune puntate di Gomorra La serie 2 (2016).

Com’è nata l’idea di ricavare un film dal libro di Roberto Saviano?

Nel leggere il romanzo mi ha colpito molto il tema della perdita d’innocenza di questo gruppo di ragazzini che fa una scelta criminale, partendo dall’incoscienza di un gioco. Vittime della società dei consumi, corrosi dal desiderio di avere tutto e subito, iniziano, infatti, ad impugnare le armi come fossero giocattoli, nella completa inconsapevolezza, in un misto di tenerezza e di ferocia. Rispetto al romanzo non mi attirava tanto il crimine in sé, quanto la fragilità emotiva di questi personaggi.

Si tratta dunque di un film sull’adolescenza deviata per colpa di una società che impone di comprare magliette e scarpe firmate, orologi di lusso e motociclette costose?

Anche, ma è soprattutto la storia di un gruppo di adolescenti che vuole conquistare un quartiere. Il loro giovanissimo capo vuole, infatti, ripristinare nella zona in cui vive una sorta di giustizia, ma la sua è un’illusione perché cerca di fare il bene attraverso il male e lo fa nel rispetto delle uniche regole che conosce.

Quali sono stati i criteri che hanno guidato la sua trasposizione del romanzo sul grande schermo?

Ho cercato di dare fragilità ai personaggi per concentrarmi sulla loro vita emotiva. Come dicevo, sono ragazzi che dall’incoscienza del gioco arrivano alla guerra, rinunciando alla loro adolescenza. Questo criterio è stato fondamentale per la scelta degli attori fino alla fine della lavorazione. L’altro elemento importante era trovare la misura nel raffigurare la violenza, che nel libro è mediata dalle parole. Lavorando con le immagini l’idea era di non essere ricattatori ed esibizionisti; non mi interessava la violenza come spettacolo, fine a se stessa. Doveva essere in funzione del tema.

Come mai ha ambientato il film nel centro storico di Napoli e non in un quartiere popolare?

Al di là della bellezza dei suoi luoghi, la scelta non è avvenuta per motivi folkloristici, ma dettata dalla consapevolezza che il centro storico di Napoli è popolare ed è l’anima e la vita di questa città.

La Napoli criminale, paragonata ad una città del Far West, sta diventando, al cinema, ormai un brand insopportabile. Non crede?

Il mio non è un film su Napoli e l’avrei potuto ambientare a Roma, a Milano o a Marsiglia. Non volevo cadere nella trappola di fare un film sociologico, né quella di proporre un viaggio all’interno della criminalità napoletana. Il cinema non deve essere pedagogico. A me interessava narrare quel fatidico passaggio dall’adolescenza alla scelta criminale. Per questo sono stato vicino ai personaggi con un’empatia ed uno sguardo che non era spettacolare, né tanto meno di chi filmava dei criminali. Io non li giudico e spero di essere riuscito a trasmettere questa mia vicinanza allo spettatore.

Fino a che punto è lecito paragonare La paranza dei bambini con Gomorra?

Non ho voluto fare l’ennesima puntata di Gomorra, uno spin off, un Gomorra Junior. Il mio intento era di raccontare l’adolescenza di chi fa una scelta criminale. Inoltre volevo raccontare il presente, i desideri dei consumi che ci sono nelle metropoliti di tutto il mondo, l’illusione di poter agire in giustizia, di fare il bene attraverso il male.

Come è arrivato alla scelta del giovane attore protagonista che interpreta la parte di Nicola?

Abbiamo fatto un cast di quattromila ragazzi. Il protagonista doveva avere tre caratteristiche che abbiamo trovato solo in Francesco. L’innocenza del volto, che è l’aspetto meno realistico del film, perché i volti dei veri boss sono diversi dal suo. Noi volevamo che l’innocenza interiore fosse riflessa nel volto. Poi la conoscenza diretta delle tematiche del film, che solo chi come lui viene da quei quartieri conosce. E poi la capacità innata di portare la verità dei sentimenti in scena. La cosa divertente è che Francesco non voleva fare il film e, infatti, non si è presentato al provino. Siamo dovuti andare a casa sua e parlare con i genitori per convincerlo.

Non ha il timore che film come il suo producano un effetto imitazione alimentando la criminalità giovanile?

Come dicevo, un film non deve essere pedagogico. Io mi limito a mostrare l’umanità dei personaggi senza giudicare e senza insegnare. Dubito assai che un romanzo o un film possano generare comportamenti criminali.

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