Pasta & pizza ma non solo

Pizza, spaghetti, penne, mozzarella, mortadella, ciabatta, salame. E poi ancora parmigiano, aceto balsamico, rucola, bruschetta, gnocchi, prosecco, espresso, cappuccino, latte macchiato, tiramisù etc. etc. È italiano o tedesco? Fate voi: sono tutte parole della gastronomia italiana stabilmente entrate nell’uso comune della lingua tedesca, a testimonianza della penetrazione profonda che la cucina made in Italy ha realizzato in Germania: merito soprattutto dei tanti connazionali che si sono trasferiti a vivere nei decenni scorsi sul suolo tedesco esportando la loro lingua insieme con i loro prodotti, abitudini e tradizioni. I dizionari registrano un aumento cospicuo e progressivo di italianismi stabilizzatisi in tedesco come termini d’uso comune. C’è poco da fare la lingua italiana è attraente, piace, crea atmosfera.

Si sentono spesso lamentele, alle volte esagerate, di quanto gli anglismi snaturino l’italiano; ma dovremmo sempre considerare quante parole italiane viceversa sono usate in altre lingue, ovvero quanto potenziale abbia l’italiano di diffondersi grazie ai settori trainanti quali gastronomia, musica, moda design etc. In Germania siamo, per così dire, dei veri e propri colonizzatori. Risulta forse che turchi, arabi o russi abbiano fornito così tanti prestiti alla lingua tedesca?

«Spaghettisiert euch!»

Anni fa fece scalpore un articolo apparso sul quotidiano «Frankfurter Allgemeine Zeitung» dal titolo Spaghettisiert euch!, ovvero «Spaghettizzatevi!». L’autore, Dirk Schümer, contrapponeva al predominante “american way of life” un altro paradigma di globalizzazione, e precisamente quello della civiltà italiana la quale, soprattutto grazie all’espansione globale della propria tradizione gastronomica, ma anche grazie ai prodotti della moda e del design “made in Italy”, si sarebbe imposta nell’intero pianeta come la vera Leit-Kultur di riferimento. Quell’articolo aveva certamente un tono ironico e paradossale, ma svelava una verità di fondo. Nonostante le inguaribili magagne del nostro sistema politico ed economico, l’Italia continuava ad esercitare un fascino irresistibile nel mondo, soprattutto in ambito tedesco. Una prova evidente era data dagli aspetti linguistici: ovunque ci si saluta con il “ciao” e si usano parole prese in prestito dall’italiano o facsimili dell’italiano. Non è un caso che per vendere meglio dolciumi e biscotti in Germania si usa attirare i clienti con riferimenti culturali a Giotto, Raffaello o Leonardo. La ditta Tchibo, colosso germanico nel campo della vendita di caffè, ha lanciato tempo fa una linea di cialde battezzate “cafissimo”, con un superlativo pseudo-italiano che nell’immaginario collettivo deve evocare sapori squisiti. E i produttori di automobili non hanno da tempo compreso che per vendere meglio le loro macchine occorre battezzarle con nomi fantasiosi italiani o italianizzati, tipo “Polo”, “Mondeo”, “Vento”, “Scirocco”? La sensazione è che una desinenza vagamente italianeggiante conferisca subito una nota mediterranea di calore e fascino anche al più brutto nome di un qualsiasi prodotto: basta un -issimo, -ino, -ello, o -one per addolcire e ingentilire, magnificare e ottimizzare, insomma “spaghettizzare” anche la più scadente proposta gastronomica o commerciale.

«Mülle Grazie» e «Kommodia dell’Arte»

Sono passati alcuni anni dall’uscita di quell’articolo e non c’è dubbio che la “spaghettizzazione” della Germania, non solo non s’è arrestata, ma è proceduta a ritmo serrato. La lingua italiana è entrata sempre più prepotentemente nella vita sociale e commerciale. In ogni città tedesca si possono vedere negozi con insegne che attingono a piene mani dalla nostra lingua. E non si tratta solo di ristoratori che propongono piatti della cucina italiana, ma anche artigiani e parrucchieri, commercianti nel campo dell’abbigliamento e dell’arredamento. Di recente la società della nettezza urbana di Berlino ha reclamizzato i propri servizi con lo slogan Mülle Grazie, un gioco di parole basato sull’assonanza tra il tedesco Müll (‘spazzatura’), e l’italiano mille.

Del resto, perché mai un negozio di restauro e vendita mobili a Berlino decide di chiamarsi Kommodia dell’Arte? Il gioco di parole riguarda qui l’assonanza tra il tedesco Kommode (‘cassettiera’) e l’italiano commedia. Il ricorso all’italiano rivela un’attrazione fatale verso la lingua italiana che non ha spiegazioni razionali. Lo stesso vale per la catena di ottica tedesca che sull’insegna mette la scritta Sivede. Quanti clienti capiranno il significato? Non molti, ma non importa: ciò che conta è in quel modo si pensa di attirarne un numero maggiore. I negozianti sia italiani sia tedeschi con le loro insegne “italianeggianti” sfruttano la disponibilità del suono italico, si avvalgono di una musicalità allusiva che favorisce piacevoli associazioni.

«Er ist immer picobello angezogen»

Ma quanti sono gli italianismi del tedesco? Difficile dare una risposta esatta, ma qualche anno fa un linguista dell’università di Heidelberg, il prof. Giovanni Rovere, ha fatto un calcolo utilizzando la versione elettronica del Duden-GWDS (Das große Wörterbuch der deutschen Sprache), il più ampio dizionario del tedesco moderno, articolato in dieci volumi con più di 200 mila lemmi. Ebbene, il risultato è che esattamente 1.888 parole tedesche hanno origine italiana, una quantità di tutto rispetto. Senza contare poi i cosiddetti pseudo-italianismi, ossia parole che in italiano non esistono, che non appartengono né mai sono appartenute al lessico della comunità linguistica italiana, ma che hanno un suono vagamente italico e vengono utilizzati nella lingua colloquiale in Germania. I casi più noti sono l’espressione come “picobello” per indicare qualcosa di perfetto e ineccepibile, e quella “alles paletti”, per dire che va tutto bene, è tutto okay. Sull’origine di queste forme si discute tra linguisti, ma il fatto stesso che si siano imposte nel tedesco colloquiale come derivazioni dall’italiano, pur senza esserlo veramente, fa riflettere sulla forza che la lingua italiana continua ad esercitare.

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