Nella foto: Auschwitz. Foto di ©Daniele Messina

Spesso la vita di un filosofo si intreccia con la propria cultura e colla propria fede. E lo stesso si può dire di un pensatore che ha dato una risposta al perché dell’Olocausto ebraico, la triste e quanto nota Shoah: Hans Jonas

Vissuto per buona parte dello scorso secolo egli ci ha lasciato un’eredità scomoda, una teoria suggestiva dell’Olocausto spiegato razionalmente, senza arrivare però ad una vera e propria dichiarazione di ateismo.

Di lingua e nascita tedesca ma di religione ebraica, esule in America, di scuola prima kantiana, poi allievo di Husserl e di Heidegger, alunno del teologo protestante Bultmann, compagno di studi di Hannah Arendt, laureatosi a Magdeburgo, si trovò anche a dialogare, non solo con i predetti campioni della filosofia contemporanea, ma anche con la coeva psicologia di Jaspers e di Günther Anders. Con loro soffrì la drammatica persecuzione nazista perché ebreo e fin dal 1933 dovette fuggire in Inghilterra, mentre perdette la madre deportata ad Auschwitz.

Fino a quasi 40 anni, si dedicò a studiare la storia delle religioni, soffermandosi magistralmente su una corrente di pensiero che già lo rese famoso, lo gnosticismo, sia negli anni a Friburgo e poi a Berlino, durante gli anni inglesi e poi in Palestina. Fu anche militare nella guerra contro Hitler nella brigata ebraica, combatté in Italia e poi sbarcò in America, vivendo fino al 1955 in Canada.

Dallo gnosticismo passò nettamente alla filosofia morale, mantenendosi saldo ad un principio assoluto del suo pensiero anche teologico, derivato da Kant: “agisci in modo che le tue azioni siano conformi a garantire che le vite umane sopravvivano sulla terra”, regola che lo rende oggi il padre del pensiero ambientalista.

Inoltre da Heidegger aveva appreso l’abbandono della vita alta, per accedere alla vita “a terra”, dove l’essere deve toccare il quotidiano, anche se non in modo esasperato, come aveva sperimentato nelle prime sue indagini, quando aveva proposto una filosofia dell’organismo, che si raffrontava con le scienze naturali, le mitiche idee che avevano influenzato le correnti gnostiche del primo millennio cristiano.

Naturalizzato statunitense nel 1955, sempre in ottimi rapporti con le correnti filosofiche trasmigrate nella cultura industriale nordamericana – per esempio con la Arendt e il marito Heinrich Bücher, dedicatosi nelle università americane dell’est al pensiero politico, al femminismo e alle cause del nazismo – Jonas passò al secondo interesse che lo accompagnò quasi fino alla morte, la ricerca di una filosofia morale idonea e a interpretare i problemi posti dalla società moderna e dalla cultura industriale.

Sotto i suoi occhi di docente e di ebreo praticante, visse a New York per quattro decenni. Il terrore per la civiltà tecnologica lo affliggeva, ma una speranza di salvezza lo guidava. La minaccia alla natura, il pericoloso sviluppo della tecnica, la vicinanza alla morte e la salute dell’uomo nell’età dei trapianti di cuore, senza contare l’inquinamento della biosfera, fino alla sperimentazione sugli ammalati; lo spinsero a ridefinire e riproclamare il principio di responsabilità, capolavoro della critica morale del ‘900.

Il tema è immenso, onde ne diamo solo alcune proposizioni: la scienza tecnica è oggi in grado di distruggere l’essere del mondo; l’uomo nella sua vita e nella globalità viene sempre prima in ogni conquista scientifica: la scienza è per l’uomo come la natura è per l’uomo, mai il contrario. In bioetica rifiutò il fanatismo tecnico e il conservatorismo cattolico.

Contraddittoria, però, forse la sua cauta apertura verso l’eugenetica e l’aborto, da lui ammessi a condizione che tali interventi fossero chiaramente rischiosi per il genere umano. In particolare, ammetteva che il corpo poteva essere manipolato geneticamente, a condizione di salvaguardare la generazione futura. In una parola, Jonas criticava coloro che come Nietzsche, avevano giudicato meglio non nascere, cioè coloro che avevano ripreso la frase di Sofocle che aveva declamato che era meglio non nascere piuttosto che dire di sì alla vita. Eppure Jonas si attirò le critiche di Paolo VI, quando propose il diritto alla morte e il suo favore per l’eutanasia.

Nella terza fase del suo pensiero dettò il suo testamento politico e religioso

In un saggio, letto in una pubblica conferenza in memoria di amici ebrei emigrati come lui in America, tentò di ricostruire il significato di Dio dopo Auschwitz. Erano gli anni ‘80 della opulenza, ma anche quelli dello sceneggiato “Olocausto”, quando in televisione comparvero finalmente le vicende dello sterminio ebreo.

Il nostro filosofo partiva dagli ultimi versetti del libro biblico di Giobbe. Diceva il Signore: o Giobbe, da quando vivi, hai mai comandato al mattino e segnato il posto all’aurora? Sei mai giunto alla sorgente del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Se è così, rispose Giobbe, comprendo ora che Tu puoi tutto e io non conto niente, né parlerò più contro di Te. Giobbe, cioè, aveva riconosciuto la onnipotenza di Dio, la limitatezza dell’uomo, l’accettazione del male nel mondo. Erano le caratteristiche di Dio, sia quello cristiano che di quello ebreo: l’onnipotenza, la bontà e la comprensibilità.

Ma perché Dio allora non era intervenuto di fronte all’Olocausto? Aveva taciuto forse per punire Israele? Dio era stato sempre buono con il suo popolo eletto, tanto che Giobbe, dopo mille tormenti e sventure, aveva creduto ed era stato ricompensato. Come poteva Israele subire una siffatta violenza?

La soluzione finale diabolica del nazismo e l’assenza di Dio erano due realtà in apparenza inconciliabili, ormai destinate ad interrompere ogni rapporto con Dio perché Israele secolarizzato aveva rotto per sempre ogni patto con il Creatore. Tuttavia la paventata rottura del contratto, quasi una inadempienza dell’accordo iniziale, per usare un linguaggio giuridico, per Jonas non c’era veramente stata.

E lo spiega alla maniera della filosofia contrattualista

Il bene dell’uomo è un valore innegabile del Dio Creatore, come lo è pure la comprensibilità, perché Dio in varie forme si è rilevato all’uomo proponendo il patto di salvezza con gli uomini. C’è però un carattere che gli appare si sia comunque progressivamente annullato, tanto da revocare la sua discesa per salvare il popolo ebraico, cioè il suo abbandono per impotenza. Come era possibile che la Rivelazione di Dio non si fosse concretizzata in un Messia?

A noi cristiani pare che la domanda di Jonas riecheggiasse le obiezioni dei Leviti di fronte a Cristo sulla croce, quando, quasi a sbeffeggiarlo, si chiedevano come mai non scendessero gli angeli di Dio a deporlo dalla Croce. La risposta di Jonas è suggestiva e ci interpella direttamente. Non è che Dio non intervenne per volontà negativa o per indifferenza – quasi un copia degli Dei che Epicuro aveva sottolineato – ma perché non fu in condizione di farlo.

Vale a dire che Dio, avendo concesso all’uomo il libero arbitrio, aveva rinunziato alla Sua onnipotenza. La libertà morale di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza lo avrebbe depotenziato. Dio era entrato nel mondo e ormai non aveva più nulla da dare, toccava all’uomo fare la sua parte.

E dunque, vincere il male e dare al mondo la svolta verso il bene, cosa che spettava solo a lui. E lo stesso Jonas, alle osservazioni di Bultmann, suo maestro a Friburgo, che gli aveva opposto che le vittime di Auschwitz erano state necessarie per ridare a Dio un suo senso; Jonas aveva ammesso comunque che i giusti delle nazioni, ebrei e non, avevano favorito la fuga e la salvezza delle vittime.

Jonas riconosceva in loro che erano il seme di Dio, che aveva prodotto comunque un frutto nel campo del male. In fondo, la gloria di Dio e la sua resa, altro non erano che una faccia della stessa medaglia. Dei tre requisiti di Dio, a ben vedere, l’onnipotenza non era davvero mancata, ma si era rivolta a effetti non visibili immediatamente.

In altre parole Jonas implicitamente concordava con Bultmann del fatto che era stato lo Spirito Santo dei cristiani a dare un senso a ciò che pareva senza senso. Del resto, la fede dei tanti martiri della chiesa cristiana aveva costituito un sigillo di prova indelebile. Era questa la venuta invisibile di Cristo nel mondo per aprire le porte di Auschwitz e poi chiuderle per sempre.

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