Chiesa del Redentore, foto di ©Luca Aless Wikipedia

Storia e storie dalle chiese di Venezia

Dagli splendori del luglio…

Che il dogado di Alvise Mocenigo (1570-1577) non fosse nato sotto una buona stella, lo si era capito fin dai primi tempi. I superstiziosi avevano colto, già nel 1572, un triste presagio, quando, passando sotto l’orologio di piazza San Marco, al Doge si era rotto l’ombrello. Segno sinistro cui seguirono la morte della moglie Loredana Marcello, la vergognosa trattativa di pace con i Turchi, conclusa nel 1573 con la cessione di Cipro ed il pagamento di una forte somma di danaro, e, l’anno seguente, un disastroso incendio al Palazzo Ducale, in cui andarono distrutti locali del Collegio, del Senato e degli appartamenti del Doge.

La cattiva sorte poteva bastare! E infatti nei giorni del luglio 1574 Venezia tornava ad essere teatro di feste e di divertimenti. Tutto era pronto: un corteo di 60 gondole, rivestite di raso, damasco, velluto, di drappi d’oro, per il percorso da Marghera a Murano, dove attendevano 60 alabardieri vestiti di seta a spicchi arancione, celeste e turchino, e 40 giovani patrizi in pompa magna; da lì l’accoglienza era affidata al doge Mocenigo sulla galea del capitano in Golfo, sfarzosamente addobbata, con 400 rematori schiavoni vestiti di taffetà giallo e blu, per accompagnare l’ospite al Lido, con un seguito di galere e di barche fantasticamente adornate. Qui un arco di trionfo disegnato dal Palladio e affrescato dal Tintoretto e dal Veronese, la Messa celebrata dal Patriarca, un tratto di canale sul Bucintoro e l’approdo a palazzo Foscari, la dimora assegnata, rivestito di cuori d’oro, di stoffe rare, di armi antiche.

L’ospite era Enrico III in viaggio dalla Polonia, di cui era re, a Parigi, per succedere al trono lasciato dal fratello Carlo IX da poco deceduto. Per Venezia era l’occasione propizia per stringere accordi con la Francia, dopo la dissoluzione della Lega santa contro i Turchi.

La visita durò 11 giorni, in un succedersi continuo di meraviglie: regate, processioni, spettacoli, concerti, balli, banchetti (memorabile una colazione con 3.000 invitati nella sala del Maggior Consiglio in cui le posate, i piatti, i tovaglioli, le pietanze, le statue ed i trofei, tutto era di zucchero). Tra l’uno e l’altro Enrico III ebbe modo di apprezzare le grazie di Veronica Franco, la poetessa-cortigiana, in un incontro privato, di cui però tutta Venezia era al corrente. Chi avrebbe detto che dopo alcuni mesi la città sarebbe precipitata nella tragedia della peste!

Interno chiesa del Redentore, foto di Wolfgang Moroder, Wikipedia

… alla “morte nera”

Venezia aveva già subito alcuni passaggi del contagio, ma solo gli ultimi, quelli del 1348 e del 1423 avevano lasciato serie conseguenze. Da allora la Serenissima per prima aveva adottato importanti misure di cura e di prevenzione, una Magistratura ad hoc con compiti sanitari e ospedali permanenti, i Lazzaretti, il primo nell’isola di S. Maria di Nazareth (Nazaretum volgarizzato poi in Lazzaretum) e il secondo nell’isola della Vigna murata.

Qualche focolaio era stato segnalato a Costantinopoli, in Ungheria e in Germania e si temeva una propagazione del virus, attraverso le vie commerciali, in Lombardia ed in Veneto, come in effetti avvenne.

Subito i Provveditori alla Sanità non diedero troppa importanza a quelle prime avvisaglie, del resto due famosi medici dello Studio di Padova, Cristoforo Mercuriale e Gerolamo Capodivacca, negavano la pericolosità del contagio. Continuarono i commerci ed i traffici mercantili ed il Doge ed il Senato seguitarono a riunirsi. Sembrava che le misure di cura e di prevenzione adottate, gli isolamenti, le quarantene e i due lazzaretti, uno per i malati, l’altro per i sospetti, riuscissero a controllare la situazione. Ma in primavera l’epidemia esplose. Nessun ceto sociale fu risparmiato, vecchi, giovani, donne, bambini, ne furono vittime, poco protetti dai fuochi purificatori e dalle cure allora in atto, la “Teriaca”, un antico preparato composto di ingredienti naturali (tra cui la polvere di vipera, il testicolo di cervo, il corno del liocorno) ma costoso, il salasso con le sanguisughe, l’urina come disinfettante.

Ad aggirarsi tra le calli ed i canali erano i medici della peste, in “tenuta medica”, con ampio mantello, maschera a becco ricurvo che conteneva erbe aromatiche, aglio e una spugna imbevuta d’aceto, ed i “pizzegamorti” o monatti, di solito detenuti addetti al trasporto dei malati o dei cadaveri. La malattia fece strage di 50.000 abitanti, tra cui anche Tiziano Vecellio, già novantenne, che però ebbe sepoltura non in una fossa comune ma nella Basilica dei Frari.

Lo splendido tempio del Redentore

Mentre infuriava la pestilenza, il 4 settembre 1576 il Senato decretò di erigere una chiesa a Cristo Redentore come ex-voto per invocare la fine dell’epidemia, con la promessa di “visitar nella forma più solenne il tempio” ciascun anno alla festa del Redentore. Il sito fu scelto il 22 novembre, “nel loco della Zudeca appresso li Capusini”. Era la soluzione più costosa, ma anche la più scenografica. L’indomani venne conferito l’incarico al Palladio, divenuto architetto ufficiale o Proto della Serenissima in seguito alla morte del Sansovino.

Dopo lunghe ed accese discussioni, il 17 febbraio 1577 fu approvato il suo progetto di un edificio a pianta quadrangolare (e non rotonda) ed il 3 maggio si giunse alla posa della prima pietra. A quel voto solenne del Senato fu attribuita la fine dell’epidemia, dichiarata ufficialmente il 21 luglio 1577 e celebrata con una processione solenne e spettacolare, conclusa su un ponte di barche posto a varcar il canale della Giudecca. Palladio morì nel 1580 quando il suo tempio era poco più che abbozzato. Per l’inaugurazione si dovrà attendere il 1592.

Resta nei secoli uno dei suoi capolavori, una chiesa che sorge solenne su un alto podio, dalla facciata composita, dominata da un’alta cupola, articolata nella successione di navata, santuario o presbiterio e coro, secondo le funzioni, a cui era votata, di uno spazio processionale, votivo e conventuale.

Da allora ogni terza domenica di luglio si ripete, a memoria di quella spaventosa tragedia, il corteo processionale, momento culminante di una festa esplosiva, spensierata, spettacolare, come da sempre è la festa del Redentore.

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