Nella foto: Il piccolo Vittorio (nome fittizio)

Appunti per una pastorale mistagogica seguendo gli spunti del teologo Mariano Delgado

Lavorare e vivere nella Chiesa in questo tempo ed in questa società è un dono immenso perché la sete di Dio abbonda e sovrabbonda anche se ci vogliono occhi e cuore per ascoltarla e coglierla. Come non cogliere dietro ad ogni inquietudine, ad ogni ribellione, anche dietro all’ostenata indifferenza o alla rabbia viva, un desiderio bruciante di Dio? Come non sentire vivo il grido dell’anima che si esprime anche attraverso parole di rifiuto colme di dolore?

“Ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te!”

Queste parole di sant’Agostino sono più che mai attuali e lo sono soprattutto in questa Europa che pare scristianizzata, atea, indifferente. Lo sono anche tra i giovani, tanto bistrattati quando si dice ancora “…ai miei tempi, sí che i giovani andavano in chiesa”. Lo sono per noi adulti che sembriamo poter far a meno di Dio in un delirio di onnipotenza che si esprime nel: “Mi sono fatto da me”.

“Siamo fatti per te”, ogni anima, ogni singola anima è fatta per Dio, ogni battito del cuore pronucia il suo nome ed ogni respiro rende lode a Lui, al di là del nostro esserne coscienti o meno. E allora sí, va riscoperta la mistica.

Va riscoperta la capacità di stare, come fece Gesú, sotto il sole cocente, a mezzogiorno, accanto ad un pozzo, e sederci li, con l’umanità tutta e riconoscere semplicemente di avere, anche noi, sete. Va superata, ammettiamolo, la pastorale delle nostre Missioni, perché forse la sete non sappiamo più neppure che cosa sia, mentre ci crogioliamo in un “miserere” continuo, smarriti e scandalizzati dalla facilità con cui le persone possono fare a meno di noi. Di noi…non di Dio. “È più facile farsi inchiodare con Cristo sulla croce, che divenire con lui un bambino che balbetta.”

Scriveva Edith Stein. Ritorniamo allora a balbettare, impariamo a farlo anche seguendo le indicazioni di Mariano Delgado (si veda pag. 20).

Ciascuno sa di Dio senza sapere come.

Ogni persona che incrociamo “sa Dio”. È un sapere intimo, profondo, connaturale più del nostro stesso dna. E qui vorrei lasciare la parola ad Angelica (per me assolutamente credente anche se lei si definisce atea) che racconta di come il suo bambino Vittorio la porta in chiesa:

“’Mamma! Entriamo qui?’ – indicando la bella chiesa di Santa Zita a Genova.

‘Va bene, entriamo. Ma perché vuoi entrare?’ – ‘Perché devo pregare’.

Un gruppo di anziane recitava l’Ave Maria davanti ad alcune immagini sacre.

Vittorio le raggiunge. Inizia a farfugliare qualcosa. Stava pregando, mi dice.

E va bene. Prega pure. Poi chiede a me di pregare. Al che gli spiego che io non prego. ‘Ti insegno io!’ – mi dice Vittorio. Prende le mie mani, le unisce e mi intima: ‘ripeti con me: uuuh uuuh uuuh…’. Ma no. Gli recito allora il Padre Nostro, lentamente. Padre nostro, che sei nei cieli. Prima interruzione.

‘Papà mio? Papà tuo? Nonno Renato? Quale papà?’ – mi chiede.

A quel punto capisco che devo dirgli che cosa significa pregare. Prendo in braccio Vittorio e usciamo. ‘Senti. In chiesa si prega Dio. Dio è un entità che alcune persone credono sopra ogni cosa. Il creatore di tutte le cose che vedi e che non vedi. La gente prega per trovare un sostegno. Un rifugio. Il perdono.’ Era serio. Io altrettanto. ‘E poi io non ci credo in Dio. Sono atea! Altrimenti ti avrei già portato in Chiesa, no?’. E nella sua infinita saggezza, Vittorio mi risponde che io sono molto brava perché anche se non mi piace entrare in Chiesa l’ho fatto andare lo stesso, a pregare.

‘Vittorio tu non stavi pregando! Dicevi uuuuuh uuuuuh uuuuuh! Quella non è una preghiera’ – ‘A me piace pregare così!’ – ‘Allora prega così.’

Tornando a casa, la sua improvvisa conversione al cristianesimo è sfociata in una visione mistica indicando il cielo. ‘Mamma guarda! Lì c’è Dio!’ – ‘No. Lì c’è il cielo.’ – ‘No, lì c’è Dio. Sei tu che non lo vuoi vedere.’ Touchée.

Dio è l’agente principale

Quante volte ci affanniamo per programmare incontri, catechesi, ritii? Quante volte ci lamentiamo perché i giovani spariscono l’istante successivo alla celebrazione della cresima? Quante volte predichiamo contro coloro che non vengono a Messa? Quante volte ci dimentiamo che nella nostra stessa vita tutto è cambiato quando Dio stesso ci ha inondati con il suo amore?

Ogni anima è sua, è da Lui creata, è da Lui amata ed è da Lui attesa… Dio, solo Dio conosce i tempi e le strade per giungere ad ogni anima. E allora a noi cosa è chiesto? A noi è chiesto solo di stare! Stare, restare, sostare nell’attesa dell’incontro tra l’anima e l’Amore. Stare, testimoniando.

Ed ecco un’altra storia a me cara:

Un anziano non credente andò da un noto sacerdote. Non riusciva a convincersi che Gesù di Nazaret fosse veramente risorto. Quando entrò nella canonica c’era già qualcuno nello studio a colloquio con il sacerdote. Il prete lo intravide in piedi in corridoi, e subito, sorridente, andò a porgergli una sedia. Quando l’altro si congedò, il sacerdote fece entrare l’anziano signore e parlarono a lungo. L’anziano da ateo divenne credente, il sacerdote, meravigliato, gli chiese: «Mi dica, che cosa l’ha convinta che Cristo è veramente risorto e che Dio esiste?».

“Il gesto con il quale mi ha porto la sedia perché non mi stancassi di aspettare”, rispose il vecchietto. Ricordiamolo, è “da questo che vi riconosceranno”.

Invitare al rischio di una “fede sicura e oscura” come via verso Dio.

Nel tempo del Natale, appena trascorso, il profeta Isaia ci ha raccontato di un popolo che camminava nelle tenebre. Ed è immagine nostra: siamo un popolo che sa che la luce verrà, che l’alba arriverà ma che per ora si trova nelle tenebre ma che, e questo è essenziale, in queste tenebre cammina!

Quante volte il dolore delle persone ci fa davvero percepire che stiamo camminando nel buio più assoluto, senza alcuna stella ma che stiamo camminando verso l’alba. Ho in mente molti volti e molte storie ma vi voglio raccontare di una donna, Lucia. Mamma di tre figli, un marito vittima del gioco d’azzardo e violento, Lucia perse un figlio al 7°mese di gravidanza a causa delle botte del marito. Lucia, il giorno di Natale di alcuni anni fa, aveva solo tre uova da portare a tavola. Lucia ha sempre ricevuto davvero poco dalla vita sin da bambina quando il padre la picchiava e la costringeva ad andare ”a servizio” non ancora dodicenne. Lucia oggi è nonna, ha lasciato il marito, è più serena e la sua fede è così grande che si fa gratitudine per ogni singola cosa bella e si fa carità: “Io so cosa significa avere fame, non posso non dare ogni volta qualcosa per i poveri!”. Quante volte ci accade di inoltrarci a piedi nudi, perché il terreno è sacro quando è bagnato dal dolore, nella sofferenza delle persone? Quante volte siamo chiamati a stare, semlicemente a star lì, come una mamma che sta accanto al bimbo che brucia per la febbre. Credo che questo stare, questo esserci, sia tra i nostri compiti, uno dei più importanti. Esserci e camminare, con tutto il popolo, nelle tenebre. E qui propongo le parole del sacerdote Alessandro Dehó: “Camminare nella notte è qualcosa di misterioso, cambia il panorama fuori e dentro di noi, colori, profondità, rumori, tutto si deposita. Natale è quando riusciremo a camminare nella notte raccontando le nostre miserie con tanta dolcezza. Camminare da nottambuli significa trovare il coraggio di raccontarsi le proprie miserie per poter accogliere e accarezzare quelle degli altri. Cammina nella notte mia amata Chiesa, non fingere, deponi le apparenze, accogli i cammini notturni di ogni uomo con stupita gratitudine. E non condannate mai nessuno, la notte è luogo del perdono e della misericordia”.

Rivolgere gli occhi solo a Cristo

Tempo fa stavo distribuendo l’Eucarestia, durante la messa, quando si è presentato un papà con la figlia in braccio. “Il Corpo di Cristo.” “Amen”. Gli ho dato la Comunione. La bambina che osservava con occhi colmi di stupore si è rivolta a suo padre e gli ha chiesto: «È buona?». Sono rimasta letteralmente folgorata da quella domanda che chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto lo spessore del nostro vissuto concreto, l’esperienza che noi per primi facciamo della sua verità.

Promuovere la gioia verso la Chiesa

Promuovere la gioia, non il dovere, verso la Chiesa. Forse quest’ultimo spunto è il più difficile da vivere concretamente.

È difficile, è complicato, è arduo perché vorremo una Chiesa perfetta. Vorremo la Gerusalemme celeste, santa ed immacolata, e la vorremo qui, su questa terra, dove nulla, neppure la Chiesa è perfetta. A questo punto posso solo fare mie le parole di Carlo Carretto, religioso mistico e scrittore: “Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso, e nulla ho toccato di più duro, di più generoso, di più bello.

Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima, e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te. E poi, dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo”.

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