Si rafforza l’ipotesi che ci sia anche l’accumulo di alcuni metalli dietro l’Alzheimer. Due studi dimostrano il coinvolgimento di ferro e rame nell’erosione della memoria e nei danni cerebrali tipici della malattia. Accumuli di ferro in eccesso sono stati trovati nel cervello dei pazienti, mentre il rame, ingerito da topolini attraverso l’acqua, rallenta l’azione delle speciali "molecole spazzino" che tengono puliti i neuroni. Il morbo di Alzheimer spaventa i Paesi occidentali ad alta densità di anziani per il suo impatto non solo sociale e clinico ma anche economico in quanto legata ad alti costi sanitari.
Chi segue stili di vita corretti è meno a rischio di ammalarsi, ma hanno un peso anche i fattori ereditari. Ad oggi la comunità medico-scientifica si sta concentrando su due principali presunte colpevoli, le proteine Tau e Beta-amiloide che si accumulano nel cervello dei pazienti. Si pensa queste proteine "avvelenino" i neuroni. Secondo altri, Tau e Beta-amiloide sono solo due parti in gioco e non raccontano l’intera storia. Si chiama in causa anche il ferro e il suo accumulo in eccesso come motore primario della malattia. Attraverso sofisticate tecniche di imaging, la ricerca ha riscontrato un accumulo eccessivo di ferro nelle aree neurali colpite dalla malattia, in primis l’ippocampo; accumulo che non compare in aree non interessate dall’Alzheimer.
Il ferro, di cui sono ricchi molti alimenti tra cui la carne rossa, si accumula in proporzione alla gravità del singolo paziente: più estesi sono i segni clinici e anatomici di malattia, maggiore è il ferro accumulato. I due studi americani sono preliminari e hanno bisogno di ulteriori conferme: siamo ancora lontani dalla risoluzione del caso Alzheimer. È di questo parere Orso Bugiani, neurologo, già primario di neuropatologia all’Istituto Besta di Milano. «Questi studi sono importanti, ma non si capisce in che modo possano essere utili per capire i meccanismi della malattia. In passato ci si era concentrati sull’alluminio, che è stato poi scagionato perché sono cambiati gli strumenti di analisi. Ora magari tornerà in auge lo zinco. Nella ricerca a volte si seguono le mode: tutti gli studi sono utili per aumentare le conoscenze in campo, ma nella miriade di dati diventa difficile distinguere cosa sia davvero importante».
Per quanto riguarda l’accumulo di ferro individuato dagli studiosi americani, «bisognerebbe capire se è una conseguenza della patologia o un fattore all’origine di essa – spiega il neurologo -. E in ogni caso riducendo la quantità di questi metalli nel cervello non si ridurrebbero i sintomi dell’Alzheimer. Il danno è troppo complesso, anche perché i sintomi (cioè i danni cerebrali) vengono fuori diversi anni dopo l’inizio biologico della malattia. Dunque ridurre la quantità di ferro a quel punto sarebbe come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da un pezzo». L’Alzheimer è legato all’accumulo della beta amiloide, una proteina presente anche nel cervello sano ma che in presenza della malattia aumenta in quantità e può assumere una conformazione diversa da quella standard. Dopo l’inizio di questo accumulo si verifica la degenerazione neuronale, ovvero la "lesione" di parti fondamentali del cervello. «Non si sa che tipo di relazione esista tra questi due fenomeni, ed è questo il punto centrale – spiega Bugiani -: cono-scere questo legame vorrebbe dire conoscere la malattia, questo è il cuore del problema». «Esistono delle ipotesi, ma siamo molto lontani da una risposta – aggiunge Bugiani -.
Per il momento si tentano delle strategie terapeutiche con farmaci o prodotti che riducono il carico di betaproteina, ma bisogna agire prima che la malattia venga fuori ovvero su soggetti giovani a rischio, perché quando c’è il danno neuronale non si può fare più nulla». La diagnosi precoce è difficile ma in alcuni casi non impossibile: tra le cause dell’Alzheimer ci sono una serie di mutazioni genetiche ereditarie che è possibile individuare. «Oggi abbiamo una conoscenza vasta delle mutazioni implicate nell’Alzheimer – spiega Bugiani -. Nel caso di una famiglia con numerosi casi di malattia, si può pensare di agire preventivamente sulle nuove generazioni portatrici delle mutazioni e quindi quasi sicuramente destinate a sviluppare la patologia. Ricordiamoci che si tratta di una malattia sempre più diffusa, e il cui rischio aumenta esponenzialmente con l’aumentare dell’età.