Il fenomeno ormai è ben noto, se ne parla in televisione e sui giornali, spesso con molta esagerazione e non poca improvvisazione. Si tratta dei cosiddetti “cervelli in fuga”, di quei ragazzi che lasciano l’Italia per cercare fortuna all’estero, alimentando nuovi flussi emigratori che rispetto al passato presentano tanti tratti di novità, ma anche consonanze preoccupanti (molti se ne vanno, oggi come ieri, sostanzialmente per ragioni economiche, per trovare un lavoro dignitoso di cui vivere). In tale contesto, Berlino, è assurta al ruolo di Mecca dell’emigrazione italica, esaltata come la terra promessa in cui gli alloggi costano poco, il lavoro si trova senza fatica, e chiunque abbia talento e buona volontà può sfondare.
Sulla scia di questa esagerata “mitologizzazione” dell’odierna Berlino – colpevolmente alimentata dai mass media – ecco che la comunità italica nella capitale tedesca sta vivendo un boom quantitativo incredibile. Negli ultimi dieci anni ne è per lo meno raddoppiata di numero, e forse le cifre sono anche maggiori, se si tiene conto dei tanti che evitano di registrarsi presso l’anagrafe locale. Sugli italiani a Berlino ci hanno girato perfino un film, La Deutsche Vita, diretto da Alessandro Cassigoli e Tania Masi, che in tono umoristico contribuisce ad abbattere un bel po’ di leggende sorte negli ultimi anni attorno alla città e alle possibilità di successo per tutti che essa garantirebbe.
Ma ancora mancano ricerche e studi complessivi che mettano bene a fuoco la problematica esaminandola in tutti i suoi aspetti. Un contributo importante in tal senso è il libro Auf Wiedersehen Italia – In fuga verso il futuro, da poco pubblicato presso la casa editrice Armando di Roma. Lo ha scritto Leopoldo Innocenti, giornalista Rai in pensione, un reporter di grande spessore, per decenni inviato nei più svariati teatri di guerra, ed ora affascinato anch’egli dal Moloch berlinese al punto di essersi trasferito egli stesso a vivere sulle sponde della Sprea.
Innocenti ha scritto un libro sugli italiani che scappano a Berlino scegliendo la chiave più efficace e coinvolgente: quella di dare direttamente voce ai protagonisti del nuovo esodo inducendoli a raccontare le proprie esperienze e motivazioni. Ne esce un mosaico di sedici storie italo-berlinesi, sedici casi di giovani italiani che a Berlino hanno trovato (o stanno cercando) quello che la madre patria aveva loro negato, ossia «la speranza di un futuro migliore ».
Cosa li ha spinti a lasciare famigliari e amici per venire a vivere in un Paese tanto diverso, dove la lingua sembra essere uno scoglio insormontabile da superare, con costumi e abitudini tanto differenti? Si tratta di scelte definitive o di esperienze temporalmente limitate? E quale immagine della Germania viene fuori dallo specchio in cui i protagonisti della nuova emigrazione riflettono il proprio vissuto? Sono le questioni che l’autore affronta interloquendo con i protagonisti del volume, ciascuno intervistato in una zona diversa della città e in un ambiente particolare, che può essere un caffè, un ristorante o anche un parco o una libreria, così che il percorso seguito si trasforma anche in un ritratto aggiornato della città e dei suoi luoghi più significativi.
Gli sbocchi che gli italiani in fuga hanno trovato nella capitale tedesca sono dei più svariati: si va da Luca, venditore di abiti vintage nei mercatini dell’usato, ad Alessandro, medico calabrese assunto presso l’ospedale Charité; da Anna, pugliese laureata in Lingue che ha trovato un posto d’insegnante, a Filippo, videomaker siciliano che a Berlino ha potuto realizzate il suo sogno professionale e soprattutto ha trovato un ambiente in cui vivere la sua “diversità” sessuale senza nessun problema di tipo morale o sociale. I casi raccontati da Innocenti sono quasi soltanto storie di successo, il che probabilmente era nelle intenzioni dell’autore, ma rappresenta un limite per la comprensione del fenomeno “italiani in fuga a Berlino”.
Le statistiche ci dicono, infatti, che molti, anzi la maggior parte, non vanno oltre l’impiego precario come cameriere in un qualche ristorante, così come una buona fetta di loro si vede costretta a rifare le valige e tornare in Italia dopo pochi mesi.