Senza voler fare la storia dei Comites, che dapprima furono espressione consolare e solo in secondo tempo divennero elettivi, cioè pienamente rappresentanti delle comunità, basti dire che da decenni sono attivi, anche se non molti, a parte gli addetti ai lavori, si sono accorti della loro esistenza. Perché? Ovvero: perché, nonostante il molto lavoro e la molta generosità sociale che i membri e i presidenti dei Comites hanno speso in questi anni sul territorio, la maggior parte degli italiani li ignora, mentre i restanti italiani si pongono la fatidica domanda: a cosa servono?
Dopo dieci anni, e dopo che una votazione – quella del 2009 – venne di fatto cancellata con un colpo di mano dall’Amministrazione, i Comites si avviano ora al loro rinnovo. Gli attuali, infatti, furono eletti nella lontana estate del 2004, quando Horst Köhler (qualcuno se lo ricorda?) veniva nominato presidente della Repubblica federale, quando la Ferrari vinceva ancora i campionati di Formula 1 e quando, negli Stati Uniti, lo sconosciuto studente della Harvard University, Mark Zuckerberg, cominciava i primi esperimenti con la piattaforma di Facebook. Ora il mondo è cambiato.
Nel 2004, insieme ai Comites, fu nominato un organismo di coordinamento, chiamato Intercomites Germania, alla cui direzione fu chiamato il presidente del Comites di Francoforte, Stefano Lobello. Quasi contemporaneamente, in secondo voto, furono eletti per la Germania cinque rappresentanti del Consiglio Generale degli Italiani all’estero (Cgie) con il compito di andare a Roma e di confrontarsi con il governo e il Parlamento. Per intenderci, chi scrive è uno dei cinque.
Nella primavera del 2006, a due anni di distanza, furono eletti infine in Parlamento 18 deputati e senatori a rappresentare le comunità italiane nel mondo. In quel modo, si disse, il pacchetto era completo, con i Comites, eletti sul territorio, alla base della piramide. Tutto sembrava perfetto. E invece non funzionò come previsto. Allora come oggi. E ciò per il semplice fatto che la legge, mentre istituiva una complicata macchina di rappresentanza, non dava ai rappresentanti alcun potere, se non quello di consulenti.
In una democrazia rappresentativa, però, i consulenti contano poco, e già dall’inizio i Consoli iniziarono a trattare i Comites con affettata cortesia; una tendenza, quella, che, in particolare a partire dalla seconda legislatura, si accentuò fino a diventare l’affettata indifferenza di oggi. Diplomatici e ministri sapevano e sanno bene che le decisioni vengono prese altrove.
L’Intercomites rispose dapprima con disorientamento; poi iniziò a parlare con sé stesso, e a stilare documenti che nessuno leggeva, mentre il Cgie, nella prestigiosa sede del Ministero degli Esteri, si perdeva in roboanti discorsi che nessuno ascoltava. Ora, nota bene: il bilancio non è così catastrofico. Molti presidenti, lavorando sul territorio con tenacia e impegno volontario, cercarono di ovviare all’errore del legislatore con eccellenti iniziative sociali e culturali. Il tentativo era quello di riempire una scatola che il legislatore aveva immaginato vuota. Nacquero seminari, libri, convegni, premi: cose più che ottime, che fanno onore a chi le ha pensate e organizzate, e fanno anche la storia migliore dell’emigrazione dell’ultimo decennio.
Questo giornale si è intrattenuto a lungo e volentieri su tali iniziative, cercando di valorizzarle il più possibile. Ciò non toglie, tuttavia, che la sconfitta politica –e ripeto, politica- delle rappresentanze fosse già scritta nel libro del destino attraverso il testo della legge istitutiva. Con – a mio avviso – due grandi eccezioni.
La prima di queste è la partecipazione di un rappresentante dell’Intercomites al vertice per l’integrazione voluto dal governo federale tedesco. Fu un successo straordinario, perché si entrò nel vertice con la piena consapevolezza di rappresentare, per elezione, l’intera comunità italiana in Germania. Un successo straordinario ottenuto un po’ per una fortunata coincidenza e un po’ per volontà, che fece dell’Intercomites Germania un caso felice nell’intero panorama delle rappresentanze italiane nel mondo. Paradossalmente, proprio mentre il legislatore italiano negava de facto ai Comitati una funzione di rappresentanza piena, questa veniva attuata sul versante dell’integrazione in Germania.
Consapevolmente, l’Intercomites indicò così a questa disorientata comunità l’unica strada politicamente praticabile per il suo il futuro: quella dell’integrazione cosciente nel luogo in cui si vive. Il secondo grande momento che segna la storia politica della comunità fu la grande mobilitazione che i Comites riuscirono ad organizzare in occasione delle chiusure dei servizi consolari in molte città. Decine di migliaia di italiani scesero i piazza a Saarbrücken, Norimberga, Amburgo e Mannheim guidati dai rispettivi Comites, i quali non commisero mai l’errore di dividere i manifestanti per partito.
Piuttosto agirono sempre nella consapevolezza che il problema era comune adempiendo pienamente, in questo modo, il loro compito rappresentativo. Non solo: essi misero in piena luce anche le penose bugie dell’Amministrazione, la quale sosteneva di dover chiudere i consolati per ragioni di risparmio. Qui però la storia politica dei Comitati si conclude (la storia culturale e sociale è altra cosa).
Nel 2009, come si diceva, sempre a causa delle citate “ragioni di risparmio”, l’Amministrazione negò alle comunità all’estero il diritto voto. I Comitati (ed anche il Cgie) rimasero in carica un secondo mandato, ma senza avere le spalle coperte dal consenso dell’elezione. Fu, quello, un vero e proprio sabotaggio consapevole che andava nella direzione di uccidere le rappresentanze, alle quali, peraltro, mancò in gran parte anche l’appoggio della pattuglia dei parlamentari, impegnati soprattutto nelle diatribe di partito (con luminose eccezioni come ad esempio Narducci, Micheloni o Garavini), o a creare le condizioni per una loro rielezione.
Valga per tutti il motto del più famoso tra gli eletti all’estero: Antonio Razzi, diventato il buffone del Parlamento, il quale, come è noto, ebbe a sostenere: “Io son qui per farmi i c….i miei”. Parlavamo del tempo che passa. In dieci anni, non soltanto il mondo, ma anche l’emigrazione è cambiata.
La vecchia generazione guarda sempre meno all’Italia, mentre nuove ondate migratorie, più scolarizzate e consapevoli, hanno altri mezzi di comunicazione. Una legge basata sui valori dell’associazionismo li lascia in gran parte indifferenti. Essi si riuniscono piuttosto sui social networks, parlano inglese e si sentono un mondo a parte che nulla ha a che fare con le valigie di cartone e le pezze al sedere. In questo scenario si aprono le elezioni con una nuova normativa che complica ulteriormente le operazioni di voto. Staremo a vedere