Cominciamo ciò che sinora è stato raccontato dai giornali di tutta Italia sulla questione dei due marò catturati in India. Siamo nel febbraio 2012. I rapporti tra Italia e India sono ampiamente compromessi per la questione delle forniture militari di Finmeccanica e delle documentate accuse di corruzione che sono seguite da parte della magistratura italiana e del governo indiano. Il quale è molto sensibile al tema, e da sempre cerca di togliersi di dosso la nomea di corrotto. In questo clima di tensione, a largo delle coste di Kochi, nella Regione del Kerala , due militari italiani di servizio sulla petroliera Enrica Lexie, intravedono, su una barca ignota, delle figure che scambiano per pirati, e sparano. Due persone rimangono uccise. Non sono però pirati, bensì due pescatori indiani. Bisogna aggiungere tuttavia che il peschereccio si trovava nella scia della petroliera, in acque notoriamente molto frequentate dalla pirateria.
Che è successo a questo punto? Secondo una nota della Marina militare, dalla petroliera sarebbero partiti gli avvisi e gli ammonimenti di rito. La qual cosa viene però smentita dalle autorità portuali indiane. Ora, senza volere parteggiare per nessuno, e nel pieno rispetto del dolore delle famiglie delle vittime, ci si può porre un primo interrogativo. Come è possibile che militari addestrati sparino così senza avere fatto prima le avvisaglie e gli accertamenti prescritti, con le richieste di riconoscimento? Infatti, secondo l’esperto militare Luigi di Stefano, queste avvisagli sono state fatte. Come riportato dallo stesso sulla pagina di Wikipedia: „L’imbarcazione non identificata, procedeva nella sua direzione senza rispettare l’alt intimato dai segnali luminosi del mercantile italiano, che rappresentano un codice di comunicazione tra navi, necessario per identificarsi a distanza in quelle acque ad alto rischio pirateria.
Nel corso dell’episodio i militari del reggimento San Marco imbarcati sulla Enrica Lexie, con compiti antipirateria, hanno esploso alcuni colpi di avvertimento per mettere in fuga l’imbarcazione sospetta“. Le dichiarazioni di Di Stefano si basano su quelle dei due militari. I quali, certamente, potrebbero aver mentito, anche se, certo, sembrerebbe più verosimile che le avvisaglie siano state fatte. In quel caso comincerebbero i misteri. Ci si potrebbe domandare perché il peschereccio non ha risposto, bensì ha proseguito per la sua rotta? Ma andiamo avanti. A questo punto c’è una richiesta alla petroliera da parte delle autorità marittime indiane di approdare al porto. La petroliera si trova in quel momento sicuramente in acque internazionali.
Per farla rientrare in acque territoriali, l’autorità marittima racconta alla compagnia che ha bisogno di testimonianze contro la pirateria. Il comandante della nave acconsente alla richiesta, anche su sollecito della compagnia armatrice stessa. Appena a terra i due marò vengono catturati con l’accusa di omicidio. Secondo le autorità indiane, il fatto si sarebbe verificato a 20,5 miglia nautiche dalle coste del Kerala, quindi in acque territoriali indiane, e i due dovrebbero quindi essere giudicati da un tribunale indiano. Diversa la versione delle nostre autorità, le quali sostengono che la nave era a 30 miglia nautiche, quindi in acque internazionali, e i due dovranno quindi essere giudicati da un tribunale italiano. La questione è importante.
Molti temono infatti che il tribunale indiano, attraverso i marò, ceda alla tentazione di dare una punizione esemplare all’Italia, essendo l’opinione pubblica indiana ancora sotto l’impressione dell’affare Finmeccanica, ed essendo il governo indiano perennemente sotto l’accusa di corruzione. Fin qui i fatti. Tuttavia pochi si sono accorti che sulla scena manca un attore fondamentale: lo Stato italiano rappresentato dall’allora ambasciatore a Nuova Dehli, Giacomo Sanfelice di Monteforte, sostituito subito dopo per decreto del ministero degli Esteri. Il quale ambasciatore conosce le premesse, conosce la situazione di tensione internazionale tra i due Paesi e sa che i responsabili verranno accusati di omicidio presso un tribunale indiano se il trucco delle autorità portuali indiane riesce.
Quindi le domande che uno spettatore spontaneamente si fa sono 2. La prima: chi è questo diplomatico? La seconda è: che cosa ha motivato il Ministero a togliergli improvvisamente l’incarico a poche settimane dell’incidente? Giacomo Sanfelice di Monteforte è nato nel 21 gennaio 1947. Ha quindi nel suo sessantasseiesimo anno di età quando nel febbraio 2012 avvengono i fatti. I diplomatici vanno in pensione all’età consueta di 65 anni. Perché allora Monteforte era ancora in servizio? Nuova Dehli è considerata per una qualche ignota ragione sede disagiata dal Ministero degli esteri. Nelle sedi disagiate come in quelle di prestigio, in cui sono destinati i cossidetti ambasciatori di rango, Nuova Delhi è Sede disagiata. Il Ministero degli Affari esteri stabilisce il grado di “disagio” delle sedi estere.
La sede di Nuova Delhi, essendo classificata “disagiata” permette al funzionario ivi in servizio di poter usufruire dell’aumento dell’Indennità di Servizio Estero ISE del 20% per il coniuge a carico e di ulteriori 5% per ogni figlio a carico anche se questi non si trasferiscono all’estero. L’indennità in una sede disagiata come quella di Nuova Dehli ammonta a circa 40mila euro al mese, non tassabili visto che si tratta di indennità e non di stipendio. In più rimane lo stipendio metropolitano da dirigente, quello, sì, tassato secondo le norme. E qui ci fermiamo un attimo, perché ci resta da capire perché proprio Monteforte si trovasse nella sede „disagiata“ di Nuova Dehli in quel momento cruciale della storia dei rapporti tra i due Paesi. Ma questo lo vedremo la prossima volta.