Esprimo di seguito il mio parere privato e personale in merito alla questione dei corsi di lingua e cultura italiana per i quali, proprio alla vigilia di Natale, è stata riproposta con forza la privatizzazione. Da dirigente scolastico, ma ancor più da privato cittadino, difendo il servizio pubblico, non ho mai creduto nel privato più di tanto per la semplice ragione che il privato persegue per sua natura gli interessi propri. Quando il privato offre un servizio pubblico deve essere controllato seriamente nella qualità, nei costi e nel rapporto costi/efficienza. Esempi in generale se ne potrebbero fare così tanti che non è il caso di dilungarsi qui.
Cosa siano le scuole private italiane, con lodevoli eccezioni legate a scuole di antica e solida tradizione è cosa nota: nella maggioranza dei casi si tratta di diplomifici per studenti che non hanno avuto successo nella scuola pubblica.
Negli articoli del Corriere ho letto di prese di posizione sulle qualità degli insegnanti assunti in loco, “enormemente in gamba” secondo l’articolo di Aldo Magnavacca. Una affermazione dovrebbe essere basata su dati, altrimenti siamo alle chiacchiere da bar. Dove sono le verifiche sulla qualità degli insegnanti? Semplicemente non esistono, l’autoreferenzialità e l’assenza di un sistema di valutazione/autovalutazione sono ahimà alcuni dei principali guai della scuola italiana. La valutazione degli insegnanti non esiste e con gran fatica da anni i vari governi, di tutti gli orientamenti, stanno cercando attivarla, scontrandosi con i sindacati e quella parte del personale della scuola che non ne vuole sapere ritenendo, erroneamente, una valutazione contraria ai propri interessi. La valutazione che manca in Italia manca del tutto nel nostro sistema scolastico all’estero. Al momento gli unici ad avere almeno sulla carta una procedura di valutazione sono i dirigenti scolastici.
Nella proposta degli onorevoli Narducci e Micheloni il valutato ed il valutatore coinciderebbero: se fosse approvata davvero predicheremmo bene per razzolare malissimo. Nei miei nove anni di permanenza all’estero ho con sollievo visto un netto miglioramento dei risultati scolastici dei nostri alunni, dati alla mano. Parlo qui delle Empfehlungen, dei casi di invio alle Förderschulen, dei casi di conflitto scuola/famiglia. La mia affermazione fonda sulle statistiche basate sugli indicatori di cui sopra ai quali posso anche aggiungere altri elementi come la quantità di dichiarazioni di valore e pagelle tradotte che testimoniano il flusso degli studenti da e per l’Italia. Mi baso su dati e non su affermazioni di principio che sono aria fritta. Non ho mai visto nei dibattiti e nelle polemiche sulla scuola che qualcuno parlasse con i dati alla mano che non fossero quelli dei contributi Mae.
I risultati di oggi sono il frutto del lavoro di decenni da parte di insegnanti, di tutti gli insegnanti, sia degli enti che del MAE, nonché dei dirigenti scolastici e del personale amministrativo che ha la pazienza di supportare tutta la macchina della scuola. Dire che gli insegnanti degli enti sono bravi e quelli del MAE sono troppo cari significa ragionare per categorie. Alla stessa stregua potremmo affermare, “tutti gli idraulici evadono le tasse” oppure “tutti i bagnini sono alti, belli e biondi”. Discorsi da bar fondati sul nulla.
Ci sono insegnanti validi e meno validi in tutte le categorie, ci sono enti che lavorano seriamente e con buon grado di autonomia ed altri che invece sono preoccupati di perpetuare sé stessi proponendo schemi vecchi di quaranta e più anni senza volersi confrontare con nessuno, neppure col tempo che passa. C’è chi è aggiornato e propone progetti innovativi e chi ancora nel 2011 fa del sostegno una bandiera della propria azione, come se gli studenti italiani fossero dei perenni somari che non riescono a camminare senza un bastone a cui appoggiarsi. Negli articoli del Corriere di Dicembre leggo di direttori didattici e consoli-provveditori. I Direttori Didattici non esistono più dal 2000 (in Italia c’è stato il processo dell’autonomia scolastica, che non è proprio poca cosa) ed i provveditorati sono stati aboliti un bel po’ di anni fa. Ecco perché è bene che qualcuno dall’Italia, insegnante, dirigente ed amministrativo faccia da ponte, altrimenti, come si vede si scade di nuovo nell’autoreferenzialità e si parla di cose che neppure esistono piú. E non da ieri.
Non credo affatto che la privatizzazione dei corsi sia una soluzione, neppure nell’interesse degli enti. Mi spiego meglio dati alla mano. Attualmente l’80% dei corsi Dlgs. 297/94, art. 636 (la legge 153/71 è stata superata dal Testo Unico della scuola da 17 anni, bisogna ricordarlo spesso a quanto pare) è gestito nel mondo dagli enti, con l’eccezione dell’Europa. Il 20% penso sia una soglia minima vitale. Gli insegnanti Mae rappresentano la garanzia amministrativa che i corsi sopravvivano e che occorre provvedere al loro finanziamento, proprio perché bisogna pagare questi insegnanti. Si tratta nel gergo amministrativo di una spesa obbligatoria. Se venisse tolto il contingente Mae l’obbligatorietà della spesa decadrebbe e l’intero impianto dei corsi perderebbe di importanza; come conseguenza non è affatto detto che il risparmio derivante dalla privatizzazione vada a beneficio degli enti, anzi è altamente probabile che l’amministrazione , cessato il vincolo dell’obbligatorietà della spesa decida di dirottare almeno parte delle risorse altrove. Cosa succederebbe degli enti in capo a qualche anno? Semplice: tolto il vincolo del mantenimento dei corsi, dovuto alla presenza del vituperato contingente Mae i contributi verrebbero lentamente assottigliati anno dopo anno. Sarebbe la cronaca di una morte annunciata. Al Direttore del Corriere, che è stato insegnante Mae per molti anni e che conosce bene le strategie dell’amministrazione pubblica questa logica non dovrebbe essere del tutto nuova. Sul Corriere apparirebbero articoli di vibrata protesta, gli onorevoli eletti all’estero si straccerebbero le vesti dopo aver combinato il guaio, i Comites si riunirebbero per produrre delibere bellicose che l’amministrazione neppure leggerebbe e i potenti sindacati della scuola italiana farebbero spallucce non avendo più personale proprio impegnato nel settore (dei dirigenti scolastici non interessa nulla a nessuno, sono troppo pochi).
Chi pensa di guadagnare da una totale privatizzazione del servizio, magari per fini elettorali, è cieco e suicida, non è questa la strada per difendere i corsi di lingua e cultura, azione che può essere fatta solo unendo le forze. Certo esistono “caste”, o semplicemente gruppi che difendono i propri interessi, è normale. Tuttavia se gli insegnanti sono una casta, altrettanto lo sono gli enti e gli onorevoli. Nessuno si chiami fuori, non siamo ipocriti. Se tutte e tre le caste sono interessate al mantenimento dei corsi di lingua e cultura e sono convinte che si tratti di un buon servizio per la nostra nazione, per l’immagine dell’Italia e soprattutto per i nostri ragazzi allora è il momento di essere propositivi nei contenuti, innovativi nei concetti e, soprattutto, capaci di elaborare una strategia comune.
Pubblichiamo per intero questo intervento del dirigente scolastico del Consolato di Friburgo, perché fa valutazioni interessanti  che richiedono forse una risposta adeguata. Il mio parere l’ho già dato, e comunque tornerò sull’argomento, anche perché Gatti mi cita personalmente. Aspettiamo interventi di altri, magari di qualche rappresentante degli Enti gestori o di qualche insegnante a contratto locale. Una unica precisazione, tanto per la cronaca. Sono stato soltanto per un anno insegnante di ruolo ed ho visto colleghi che invece c’erano da vent’anni perché mandati da „qualcuno“. E ciò alla faccia della legge. Mau. Mont.